Fabio Anselmo: l’avvocato dei morti di Stato
Oggi che l’avvocato Fabio Anselmo è considerato l’avvocato delle vittime dello Stato sono in molti ad accusarlo di protagonismo, o di fare “processi mediatici”. In realtà la notorietà dell’avvocato nasce dal fatto di aver avuto il coraggio di prendere la difesa di persone in casi molto delicati, di cui nessuno si sarebbe voluto occupare. E nella sua capacità di far diventare dei casi nazionali vicende che avrebbero altrimenti avuto lo spazio di un trafiletto di cronaca nera su un quotidiano locale, obbligando tutto il Paese a fermarsi e riflettere.
Con il proprio lavoro, a partire da singoli casi, ha reso evidente a tutti come qualcosa nel nostro ordinamento giuridico non funzioni, palesando che al nostro codice penale manca qualcosa di fondamentale: il reato di tortura. In nome di un principio semplice ma scomodo per chi amministra il potere: chi sbaglia paga, anche se indossa una toga o una divisa. Un lavoro che sta contribuendo a riscrivere i diritti civili di quelli che l’avvocato chiama i «morti di Stato», e che «all’inizio delle vicende processuali sono descritti come drogati (Aldrovandi), spacciatori (Cucchi), stalker (Budroni): tutti inquadrati in categorie sociali che hanno un buon livello di disonore», in processi che spesso vedono sul banco degli imputati non chi ha picchiato o premuto il grilletto, ma le vittime e la loro vita, con il rischio che si trasformino in colpevoli. E che evidentemente a qualcuno deve aver dato fastidio, visto che la casa estiva dell’avvocato è stata teatro di due diverse intimidazioni. Il primo avvertimento era stato reso noto da Ilaria Cucchi, che si accorse di quattro fori di proiettile sul contatore dell’acqua della casa di campagna di Anselmo, nelle campagne marchigiane. L’anno scorso nuovi fori di proiettile sono comparsi nel cartello che indica il vicolo cieco all’imboccatura della strada che porta a casa sua. In ordine di tempo l’ultimo caso andato a giudizio è quello di Davide Bifolco, il 16enne ucciso nel 2014 nel corso di un inseguimento nel Rione Traiano, a Napoli. Il carabiniere Giovanni Macchiaroli è stato giudicato colpevole di omicidio colposo con una condanna di 4 anni e 4 mesi e condannato anche a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici.
Ma l’avvocato di recente si è espresso anche sul caso di Giulio Regeni puntando ancora il dito sulla mancanza del reato di tortura che rende «evidente la straordinaria debolezza del nostro Paese da un punto di vista giuridico» e spiegando che: «Essere ucciso è diverso da essere torturato e ucciso. È palese il fatto che la tortura esprime crudeltà e comporta sofferenze ben più rilevanti rispetto al “semplice” omicidio. E a chi dice che questo ambito è coperto dal reato di lesioni o dall’omicidio con l’aggravante della crudeltà rispondo che se tutti i paesi che si definiscono democratici e l’Onu ci impongono di dotarci di una legge specifica avranno dei validi motivi. Torturare significa procurare sofferenze acute e intollerabili fini a se stesse e che vanno al di là dell’intento omicida e che possono essere compiute da soggetti diversi da coloro he provocano materialmente la morte. Quando questo si verifica la magistratura italiana non ha altra arma che processare i responsabili per lesioni dolose, reato che cade presto in prescrizione, come nel caso della Diaz».
La storia della gestione dell’ordine pubblico di questo Paese ci ha mostrato più volte il limite labile tra l’uso legittimo della forza e l’abuso. Per fortuna c’è un avvocato che ha avuto la forza di ricordarlo a tutti quanti.
Riccardo Rasman, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Vittorio Morneghini, Filippo Narducci, Edoardo Tura, Riccardo Magherini, Bernardino Budroni, Davide Bifolco…Manca qualcuno?
Luciano Isidro Diaz, il cavallerizzo argentino che sto difendendo per un pestaggio avvenuto all’interno della caserma dei Carabinieri di Voghera e quello di Rashid Assarag il detenuto che registrò su un nastro gli agenti che ammettevano l’uso della violenza nel penitenziario di Parma.
Avvocato, ma chi glielo fa fare?
Chi me lo fa fare? È proprio una bella domanda…La risposta è che ci credo. Credo fermamente che la tutela dei diritti umani debba essere la base della nostra società. Purtroppo assisto a questi conflitti tra magistratura e politica che mi lasciano abbastanza freddo.
Parla della polemica tra il presidente del consiglio Renzi e il presidente dell’associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo?
Sì, sì. Io dico che è ora che l’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) si occupi anche di tortura. Non so se sa che Ilaria Cucchi ha lanciato una petizione che in poche ore ha raggiunto il record di 150mila firmatari. Bisogna partire da qui. Viviamo in una società dove i diritti dei più deboli sono sistematicamente sacrificati e considerati sacrificabili.
Nel silenzio generale, visto che se queste vicende non fossero state portate da lei alla ribalta forse l’opinione pubblica non ne sarebbe a conoscenza…
Sono stato accusato durante il processo Aldrovandi di fare processi mediatici. Io li faccio. Perché se non li faccio in televisione e sui giornali i casi giudiziari non arrivano mai in tribunale. E questo me l’hanno riconosciuto gli stessi giudici. Nella sentenza Aldrovandi i giudici mi danno atto che se non avessi sollevato l’attenzione dei media la morte di Federico sarebbe stato un caso di mala giustizia perché la procura avrebbe archiviato.
Sì è fatto dei nemici?
Mi dica lei…Tanti.
Ma più tra i suoi colleghi o magari tra alcuni esponenti delle forze dell’ordine o alcuni sindacati?
Diciamo che c’è una certa ostilità nei miei confronti soprattutto tra alcuni sindacati di polizia che male interpretano il mio ruolo. Io credo che i sindacati di polizia non debbano aver nulla a che fare con le vicende giudiziarie di cui mi occupo. Di sindacale non vi è nulla e chiunque può sbagliare, chiunque. Che sia avvocato, magistrato, poliziotto o carabiniere. E non può essere lasciato indenne solo per il fatto che indossa una divisa o una toga, deve essere chiamato ad assumersi le proprie responsabilità in nome del principio che la legge deve essere uguale per tutti.
Qual è il primo caso di questo tipo che ha seguito?
Il primo caso è stato Federico Aldrovandi al quale si è sovrapposto Riccardo Rasman, poi è arrivata subito la morte di Stefano Cucchi e via via tutti gli altri.
Dalla difesa di Federico Aldrovandi secondo lei c’è stato un cambiamento nel funzionamento della giustizia per ciò che riguarda la tutela dei detenuti o delle persone sottoposte a fermo od arresto?
Credo che sarebbe presuntuoso da parte mia sostenere che ci sia stato un cambiamento. Sicuramente c’è una presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica. Il problema esiste e si parla di legge sulla tortura e sul fatto che in Italia non ce ne siamo mai dotati ed è uno scandalo.
Oltre a questa legge secondo lei cosa si potrebbe fare?
Bisogna fare un’operazione culturale a lungo raggio. Nel momento in cui i sindacati di polizia occupano le pagine dei giornali dicendo che se entra in vigore una legge sulla tortura non riescono più a lavorare, credo che questo sia un fatto particolarmente grave e significativo.
Il M5S l’aveva candidata al Consiglio Superiore della Magistratura…
Chiaramente avrei dovuto sospendere la mia attività professionale e questo mi avrebbe creato un grande imbarazzo. Avrei avuto una grande convenienza sicuramente dal punto di vista economico. Ho fatto una scelta scellerata anche se sono rimasto onorato dal fatto di essere proposto, però son qui che faccio ancora l’avvocato, purtroppo.
E per fortuna delle persone che ha difeso, che forse non avrebbero trovato un avvocato disposto a farlo…
Per questo la ringrazio.