Egreen: il vero riconosce il vero
Il cuore e la fame è stato un disco lungamente atteso e programmato, il culmine di una carriera fatta di palchi e release non ufficiali, ma soprattutto di realness ed estrema sincerità, non proprio le qualità principali del panorama hip hop italiano. Egreen arriva in un momento delicato, laddove l’assoluta esposizione mediatica del nostro rap ha spesso dimenticato alcuni punti focali della nostra cultura. Vi sono regole non scritte? Se sì, quanto contano al giorno d’oggi? Parliamo di gavetta, di consapevolezza, dell’essenza piuttosto che l’apparenza, del rispetto di chi c’è stato da sempre, del fare rap non è mica obbligatorio. Abbiamo ritenuto doveroso approfondire con lui, in questa interessante chiacchierata, questo tipo di tematiche. Perché arriverà il punto in cui il vero riconoscerà il vero e tutto il rap senza fondamenta e credibilità svanirà anche dai canali mainstream. A voi, Egreen.
Nella recensione a Il cuore e la fame scrivo che il rap si sta imborghesendo, perdendo un po’ il contatto con la sua base. Non esistono più le jam, ma gli instore e i firmacopie. Immagino di trovarti d’accordo…
Il fatto che le jam non esistano più ha praticamente annullato il fattore di aggregazione nell’hip hop, che è uno dei suoi fulcri. Io so cosa vuol dire jam, perché ne ho vissute e organizzate tantissime. Ti posso dire che dopo il periodo buio del rap italiano, ci fu l’illuminazione di 8 Mile: solo che la battle anziché entrare nelle jam è esplosa quasi da un giorno all’altro nei locali ed è stata la miccia per la ri-popolarizzazione del rap italiano. Ciò fa parte del processo di rendere accessibile il genere a tutti, ma il problema è che i fattori di aggregazione e un certo spirito di una volta vengono a mancare perché c’è stato un vuoto generazionale. Noi che c’eravamo prima abbiamo continuato con le nostre idee e le nostre cose e dopo qualche anno la cosa si è risvegliata da zero, da un coma del quale non ricordava più nulla…
E ora, si può dire che l’hip hop italiano sia entrato ufficialmente e costantemente nel panorama mainstream? Così facendo non si rischia di perdere il suo zoccolo duro?
Oggigiorno non so più cosa sia lo zoccolo duro dell’hip hop. Ora, purtroppo o per fortuna, potrebbero essere i ragazzini. Non si può sapere se questo sia il momento in cui si stabilizzerà come movimento mainstream. Prendi i Sottotono, anni fa giravano in limousine, vedevano tanti soldi e riempivano i palazzetti; oppure Neffa, che fece dei numeri enormi con una bomba underground. Adesso si è aperto molto più il discorso, ma non credere che in tanti facciano questi numeri. I grandi numeri li fanno davvero in pochi, che a parte Fibra sono praticamente un unico artista, in quanto i canali di promozione e il bacino d’utenza sono quelli…
Ora gli album rap diventano dischi d’oro e vantano le prime posizioni anche in classifica.
L’ho sempre detto che non me ne frega assolutamente un cazzo di queste cose. Oggi è tutto cambiato, è tutto virtuale. Anche perché per un disco d’oro servono molte meno vendite rispetto ad anni fa. Comunque io spero che sia questo l’inizio di un movimento mainstream, perché ho solo da guadagnarci come rapper. Odio la figura del rapper talebano e di certo non lo sono, non mi nascondo. Io capisco anche che ad Amici debba esserci un rapper –fermo restando che io non rapperei mai una cover. Vedremo l’anno prossimo come si evolverà il tutto, sono ormai tre anni che il processo sale qualche gradino.
“Hip Hop” è un po’ il tuo brano simbolo. Nel suo prologo, assieme a Taglierino hai riportato alcune citazioni di pionieri del rap italiano. Rappresentano delle regole non scritte i messaggi che comunicano?
Sono citazioni che richiamano il concetto fulcro di “Hip Hop”. Io credo che il rap, rispetto ad altri generi, abbia molte regole non scritte in più, ha un vero e proprio codice da seguire. Magari nel rock tu devi solo stare in camera per anni e imparare a suonare la chitarra: in generi con strumenti e musica, le regole si scrivono da sole, nel senso che o spacchi o no. Un giovane chitarrista non avrà mai l’attitudine di un giovane rapper, perché sa che deve andare a lezione, deve studiare gli accordi dei mostri del rock, deve stare lì a provare e riprovare. Nel brano ho ripreso alcune frasi di pionieri per contrapporle al momento che stiamo vivendo ora…
Tra questi messaggi, c’è quello che riguarda la gavetta, un concetto oramai anacronistico. Credi sia sempre necessaria?
Io credo che innanzitutto servano degli step per se stessi, perché poi corri il rischio di arrivare ad un certo punto della carriera che ti rendi conto di non poter fare determinate cose, perché il tempo utile per farle è passato. C’è un tempo per tutto.
Notavo che molti dei rapper underground che come te hanno condiviso parecchi anni e lo spirito dell’hip hop italiano di un tempo, ti hanno praticamente preso come portavoce di un certo fastidio verso la situazione che si respira ora…
Innanzitutto lancio una polemica: il rap è il genere con il più alto numero di portinaie, da nord a sud. Siamo in pochi e tutti sanno tutto degli altri e tutti hanno da ridire su chiunque. Dico questo perché si è sempre parlato tanto delle cose che scrivo, quando io non mi faccio tutti ‘sti problemi, non sto lì a pensarci più di tanto. È indubbio che la situazione del rap italiano di adesso non sta bene ad un sacco di persone: a qualcuno non va bene perché rosica, a qualcuno per invidia, qualcuno è un conservatore estremo e a qualcuno come me non vanno bene certe cose. Questo non so se mi renda o meno un portavoce di non so cosa.
“Le mode vanno e vengono, il suono vero è per sempre”. Quale potrebbe essere invece la definizione di suono non vero?
Il suono che non ha fondamenta, che non ha credibilità, che è suonato per caso, che non trasuda amore e passione, che non dà tributi, il suono di plastica, il suono dettato dall’esigenza di accontentare qualcun altro anziché te in primis. Io cerco di fare cose di stampo classico, tradizionale, faccio il boom bap e potrei farlo anche sulla dubstep.
“Il cuore e la fame” è figlio di sensazioni riguardanti gli ultimi periodi di rap italiano. Credi sia un disco buono per questo momento e magari non per un altro?
È fuori di dubbio che sia un disco figlio di sensazioni accumulate in questo periodo. Ma grazie al cielo gli scarsi, i poser, i bugiardi, i babbi, i falsi ci saranno sempre. Il wack mc sarà sempre una fonte di ispirazione dal quale attingo, è una componente fondamentale di questo genere. In base a come il momento cambierà, cambieranno anche le mie sensazioni.
Nel video di G20 Freestyle, fai un sincero tributo al movimento underground italiano. Ma molti, più che capire il gesto, ti hanno criticato per aver messo un artista anziché un altro. Insomma, spesso ho l’impressione che essendo molto diretto corri il rischio che guardino il dito, piuttosto che la luna.
Molta gente capisce quello che vuole capire, molta gente non legge tra le righe, penso sia pieno di furbi. Penso che tanta gente dovrebbe smetterla di fare rap, mettere in cinta la propria ragazza e andarsene fuori dai coglioni. Penso che un sacco di gente dovrebbe buttarsi giù da un ponte con dei macigni legati alla vita così sprofonda giù e non la vediamo più…
Ok, ok, aspetta! La tua massima è “fare rap non è obbligatorio”: il problema è che tutti lo fanno, o che quelli non in grado non se ne rendano conto?
Il fake è fake perché non se ne accorge nemmeno. Molti si sentono in diritto di fare il rap, ma senza capire. Va bene non capire di essere uno scarso, però, se lo fai, non sei un po’ curioso di sapere tutte quelle cose da prendere in esame prima di prendere in mano un microfono? È colpa tua che sei un coglione, non devo venirtelo a dire io. Nel disco ho scritto che “so che sta roba è più grande di me”: ho sempre saputo che prima di ricevere da questa roba, dovevo dare e sono stato spinto per anni dalla furia cieca di dare, dare, dare. Veniva trasmesso –anche in maniera non esplicita- un senso di gratitudine e riconoscenza verso questa cosa e tu ti rendevi conto che l’hip hop era una cosa preziosa, che ti dava responsabilità anche se eri un ragazzino di merda. E poi fidati che a un certo punto ti dovevi scontrare coi tuoi limiti, come quando ti rendi conto di non essere bravo a giocare a calcio o a pallacanestro, a fare modellismo, a poker, in tutto…
Sei nato in Colombia, hai girato il mondo, ma… non sai quanto godo a dire che sono di Busto Arsizio!
La gente si deve ricordare che io questa cosa l’ho cominciata in un buco di culo, che è Busto. Io non arrivo da Milano, arrivo da un posto dove non c’era niente. Io sono stato sempre quello che arrivava da fuori: la gente che mi dice che comunque sono vicino a Milano non capisce che quello che viene da qua vicino è sempre nel mirino, non era mica facile…
Se non fossero proprio chiarificatori i tuoi teaser pubblicati qualche tempo fa, ci dici che senso dai ora al video rap italiano?
Un senso inflazionato ed esasperato all’ennesima potenza. Ormai è diventato come un cheeseburger: lo prendi, lo scarti, lo mangi e finisce lì. Oggi il video è visto come una cosa che devi fare perché altrimenti non ti caga nessuno.
Credo che il video sia parte di una serie di steps, un punto d’arrivo e di partenza nella vita artistica di un mc, rappresenta la consacrazione del confronto ai massimi livelli, ed è giusto che venga vissuto anche come una sorta di piccolo traguardo, di bandierina. Tempo fa era visto come una cosa di grande valore, fatta con la consapevolezza che da li ci si sarebbe messi davvero in gioco. Oggi è cambiato radicalmente il modo di comunicare e fa parte del game, accetto il concetto con un po’ di fastidio, ma lo accetto.
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Nicola Pirozzi