Ecovillaggi, le comuni 2.0 dove si sperimentano nuove soluzioni per vivere il mondo
Una volta presa la strada che dalla città di Anghiari collega il villaggio è già un mondo diverso. La città lascia immediatamente posto ad una natura quasi incontaminata forgiata dai tipici paesaggi d’Appennino. La stretta e curvosa stradina comunale diventa presto sterrata, altri quattro chilometri di slalom tra le buche e si arriva al borgo di Upacchi. 18 case raccolte attorno a una piccola piazzetta, circondate dai monti dell’Alta Valtiberina. Upacchi venne abbandonato completamente nei primi anni ’60, nel tempo in cui le sirene della vita cittadina e il salario sicuro delle fabbriche erano un richiamo troppo forte per uomini abituati agli stenti e ai sacrifici della vita rurale. Trent’anni dopo un uomo di Bolzano visita il borgo abbandonato e se ne innamora, progetta di ripopolarlo su basi diverse, facendone un villaggio ecologico e comunitario. Si chiama Elmar Zadra e come prima cosa decide di pubblicare un annuncio su una rivista per trovare altre persone da coinvolgere nel suo sogno. In pochi giorni un piccolo nucleo si unisce a lui, giovani coppie provenienti da varie zone d’Italia, ma anche da Austria, Inghilterra e Germania.
Il gruppo fonda una cooperativa che rileva i terreni e i ruderi delle case e li assegna agli abitanti. Le abitazioni vengono ricostruite seguendo i principi dell’edilizia ecologica, con le mura fatte di intonaco ed argilla e gli isolamenti in argilla e paglia. Per la maggior parte vengono autocostruite dagli abitanti stessi, la fortuna ha voluto infatti che nel gruppo vi siano alcuni artigiani ed un elettricista. Negli anni la vocazione ecologica di Upacchi si è perfezionata sempre di più. Oggi le abitazioni sono riscaldate tramite particolari stufe a mattoni dette ad “accumulo di energia” (anch’esse costruite da un abitante del villaggio di nome Martin), capaci di riscaldare un’intera abitazione accendendo un unico fuoco al giorno. L’acqua giunge direttamente dalla fonte del torrente che attraversa il villaggio, ed è sufficiente per bere, lavarsi ed irrigare i campi dove si coltivano alimenti per l’autosufficienza alimentare. Gli stessi scarichi delle case sono resi eco-compatibili attraverso quattro impianti di fitodepurazione collocati in vari punti del villaggio, i quali convogliano gli scarichi verso vasche contenenti canne di lago ed altri piccoli arbusti, che attraverso i micro organismi rendono le acque smaltibili nel torrente senza alcun rischio di inquinamento.
«A spingerci in questo esperimento è stata la voglia di provare un nuovo stile di vita, in maggiore armonia con la natura e con il pianeta, basato realmente su di uno stile di vita sostenibile anche a livello ecologico», racconta Eva Lotz, una delle abitanti storiche del villaggio. Desideri che la uniscono non solo agli altri abitanti di Upacchi, ma a tutti coloro che hanno intrapreso strade simili in tutta Italia. E che sono sempre di più. Lungo lo stivale si contano ormai una trentina di posti come Upacchi, oggi riuniti in rete nel Rive (Rete Italiana Villaggi Ecologici), ed altri sono in progettazione. Si tratta di esperienze anche molto diverse tra loro, specie per quanto riguarda l’organizzazione interna. Alcuni villaggi infatti sono basati su una forte idea politica comune, è il caso ad esempio della Comune di Bagnaia, uno dei primi villaggi “utopici” italiani, fondato nel 1979 vicino a Siena, dove abitazioni e campi sono di proprietà collettiva, ogni decisione è presa con meccanismi di consenso orizzontale e non è consentito il possesso di beni considerati di lusso. Altri villaggi invece sono basati su un forte collante spirituale, caratterizzato da numerosi momenti di meditazione in comune.
Upacchi è invece considerabile un villaggio a vocazione mista, nel senso che le abitazioni sono di proprietà individuale e per entrare a far parte del villaggio, non occorre essere accettati dagli altri abitanti dopo un periodo di prova, come accade nelle Comuni propriamente dette. La cooperativa che segnò la prima parte del suo sviluppo è stata sciolta, ma la vita interna al borgo continua ad essere condivisa dal comune obiettivo di sperimentare sempre nuovi metodi per ridurre la propria impronta ecologica sul pianeta, e sulla presenza di spazi di aggregazione comune, come “Il paradiso”, una zona del villaggio provvista di sala per gli incontri e per le feste, un forno per cuocere pane e pizze e di una sauna (naturalmente autocostruita) ad uso comune. Uno stile di vita alternativo nel vero senso della parola, tanto da aver attratto anche un gruppo di studenti di architettura dal Giappone, che lo scorso anno si sono recati a studiare l’organizzazione eco-sociale del villaggio, considerandolo uno delle avanguardie europee.