Economia della felicità: come sbarazzarzi del Pil e del mito della crescita perpetua
Se gli scienziati hanno ragione a dire che il nostro modello di crescita esponenziale del Pil è il fattore che sta al cuore della nostra crisi, allora è da qui che dobbiamo partire se vogliamo immaginare un futuro alternativo. Un primo passo cruciale sarebbe quello di sbarazzarsi del Pil come misura del progresso economico e del benessere, sostituendolo con qualcosa di diverso. Ci sono molti parametri alternativi a disposizione. Per esempio, l’indicatore del progresso autentico (Gpi, Genuine Progress Indicator) parte dal Pil ma poi aggiunge fattori positivi come il lavoro familiare e volontario, sottrae fattori negativi come l’inquinamento, l’impoverimento delle risorse e la criminalità, e tiene conto della disuguaglianza. Una serie di stati americani, come il Maryland e il Vermont, hanno già cominciato a usare il Gpi come misura del progresso, anche se in subordine rispetto al Pil. Il Costa Rica sta per diventare il primo paese a farlo, e la Scozia e la Svezia potrebbero presto seguirne l’esempio.
Misurare il Gpi ci dà un quadro completamente diverso della società, rispetto al Pil. Se sovrapponiamo i due grafici, solo per fare un confronto, vediamo che il Gpi è cresciuto insieme al Pil fino a metà degli anni settanta e poi si è stabilizzato (e ha addirittura cominciato a calare), mentre il Pil continuava a crescere.
Tutto questo dimostra che la crescita del Pil non si traduce più in una società migliore. Le conseguenze del passaggio a un parametro come il Gpi sono profonde. Se i nostri governi puntassero a massimizzare il Gpi, sarebbero incentivati a creare politiche che facilitano i risultati economici positivi e limitano quelli negativi. Tuttavia, non deve necessariamente essere il Gpi. Può essere qualunque cosa: l’Indice del pianeta felice (Hpi, Happy Planet Index), disegnato dalla New Economics Foundation, che soppesa aspettativa di vita, felicità e impronta ecologica; o l’Indice di vita migliore (Bli, Better Life Index) dell’Ocse, che si concentra su undici aspetti del benessere sociale e ambientale; o un qualunque indicatore che non è ancora stato inventato. Appena ci saremo scrollati di dosso la tirannia del Pil, potremo avere una discussione aperta sulle cose a cui attribuiamo realmente valore, e su come vogliamo misurare il progresso. Per certi versi, è l’atto democratico per eccellenza. E quel che è certo è che il risultato apparirà molto diverso dal Pil. Probabilmente non contemplerà affatto la crescita perpetua, perché far crescere in eterno qualunque cosa, anche le cose buone, è filosoficamente assurdo.
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Abbiamo già moltissimi dati che ci dicono che è possibile ridurre la produzione e i consumi e al stesso tempo incrementare indicatori di sviluppo umano come la felicità, l’istruzione, la salute e la longevità. Per esempio, l’Europa ha indicatori di sviluppo umano più alti degli Stati Uniti in quasi tutte le categorie, pur avendo un Pil pro capite del 40 percento inferiore e una quantità di emissioni pro capite del 60 percento più bassa. Quel di più che hanno gli Stati Uniti non frutta loro nulla, quando si parla delle cose che contano veramente.
Quanto ci serve davvero per vivere una vita lunga e felice? Possiamo affrontarla come una domanda empirica. Negli Stati Uniti, l’aspettativa di vita è di 79 anni e il Pil pro capite di 53.000 dollari. Ma molti paesi hanno raggiunto un’aspettativa di vita simile con una frazione di questo reddito: il Costa Rica ha un’aspettativa di vita superiore a quella degli Stati Uniti pur avendo un Pil pro capite di appena 10.000 dollari. Naturalmente possiamo immaginare che una parte dell’eccesso di reddito e consumi che vediamo nel mondo ricco produca miglioramenti della qualità della vita che non trovano espressione nell’aspettativa di vita. Ma anche se andiamo a guardare i parametri che esprimono la felicità e il benessere complessivo, troviamo ai primi posti una serie di paesi a basso e medio reddito. Secondo il World Happiness Report delle Nazioni Unite, il Costa Rica è allo stesso livello degli Stati Uniti e il Brasile supera la Gran Bretagna, nonostante abbia soltanto un quarto del reddito di quest’ultima. Tutto ciò coincide con le scoperte di un campo di studi in espansione, l’«economia della felicità», che ci dice che la felicità cresce insieme al reddito solo fino a un certo punto, un punto che i paesi ricchi hanno superato da tempo.
Negli Stati Uniti, per esempio, i tassi di felicità hanno raggiunto i livelli massimi negli anni cinquanta, con un Pil pro capite di appena 15000 dollari circa (in dollari del 2010), e da allora si sono stabilizzati. Dopotutto, quello che ci rende più felici non è guadagnare di più, ma maggiore uguaglianza, rapporti personali soddisfacenti e forti garanzie sociali.
Alla luce di tutto questo, forse dovremmo considerare paesi come il Costa Rica non come nazioni sottosviluppate, ma come nazioni sviluppate nel modo giusto. Dovremmo considerare le società nelle quali le persone vivono una vita lunga e felice con livelli di reddito e consumi bassi non come luoghi arretrati da sviluppare secondo i modelli occidentali, ma come modelli esemplari di un modo di vivere efficiente, e cominciare a esortare i paesi ricchi a ridurre i loro consumi eccessivi.
Molto probabilmente nel Sud del mondo questo sarebbe un obiettivo che riscuoterebbe consensi, ma convincere gli occidentali potrebbe rivelarsi complicato. Complicato, ma non impossibile. Secondo recenti ricerche tra i consumatori, il 70 per cento delle persone nei paesi a medio e alto reddito è convinto che l’eccesso di consumi stia mettendo a rischio il nostro pianeta e la società. Una maggioranza analoga è convinta altresì che dovremmo cercare di comprare e possedere meno cose, e che fare una cosa del genere non metterebbe a repentaglio la nostra felicità. In altre parole, questa consapevolezza si sta già costruendo. La gente è pronta per un mondo diverso.
Estratto da “The Divide” di Jason Hickel. Per gentile concessione di ©Il Saggiatore 2018