È morta Claudia Sterzi: coraggiosa militante antiproibizionista
Se ne è andata ieri Claudia Sterzi, radicale storica, segretaria dell’Associazione radicale antiproibizionisti. Stretta collaboratrice di Emma Bonino, che l’aveva voluta con sé alla Farnesina. Un tumore se l’è portata via in pochi mesi.
Claudia Sterzi, seppur lontano dalle copertine che attiravano molti colleghi è stata una figura chiave dell’antiproibizionismo italiano. Per anni, dalle frequenze di Radio Radicale ha condotto un programma che denunciava il fallimento della war on drugs, e sempre come segretaria dell’Associazione radicale antiproibizionisti ha difeso le ragioni dell’antiproibizionismo in sede europea e nelle riunioni dell’Onu.
Ha lottato per la decriminalizzazione di milioni di persone coinvolte come consumatori, coltivatori o manovalanza nei traffici, nella certezza delle ovvie ricadute positive sul sociale e contro l’aspetto della corruzione e della violenza, che il narcotraffico si trascina dietro. Era convinta che fino a che dura la strategia proibizionista, il narcotraffico (come dimostrano le evidenze storiche) prospererà e si espanderà.
Ci sembra giusto ricordarla con uno dei suoi ultimi scritti, una lettera intitolata “Io non credo”, che parla di antiproibizionismo e di diritto alla autocoltivazione di cannabis.
Io non credo. Non credo alla teoria del complotto, e a nessuna visione del mondo che preveda un gruppo di uomini, semialieni o rettili, che decidono le sorti del mondo e manipolano le menti; casomai, piuttosto, la società umana si riproduce quotidianamente secondo una logica di dominio e di potere che è insita nella natura stessa.
Eppure, a seguire le vicende della war on drugs nell’ultimo secolo, si ha davvero l’ impressione che un complotto esista, un complotto che lega globalmente le politiche proibizioniste con i flussi del denaro nero, con la potenza della criminalità organizzata narcotrafficante, schiavista e terrorista, con il controllo della popolazione, la corruzione politica e militare, la violenza sociale e ambientale, l’incarcerazione di massa, e tutto quel che c’è di spregevole nella storia umana.
Non stupisce, quindi, che l’Italia sia destinata a rimanere una delle ultime enclave del sistema proibizionista, data la forza e la diffusione delle mafie nazionali; in questa ottica l’annuncio dello Stato, di voler avviare la produzione di un farmaco cannabinoide, affidandone la coltivazione e la lavorazione ad un centro di ricerca ministeriale e a un istituto farmaceutico militare, è perfettamente in linea. Si accontentano le istanze “civili” in rivolta contro la preclusione all’accesso ai farmaci, una deriva proibizionista che, demonizzando una pianta, ne negava i benefici; si mantiene lo stretto controllo sulla ricerca chimica farmaceutica in campo di sostanze stupefacenti, affidata da sempre all’esercito; ci si dimostra democratici, semplicemente dando corso ad un diritto che era già in Costituzione dal 1946; si smonta la fragile costruzione della battaglia per il diritto all’autocoltivazione limitato ai malati, un assurdo politico costruito sul niente, perché il diritto, o la libera facoltà, all’autocoltivazione e all’autodeterminazione dei comportamenti privati è cosa che riguarda tutti i cittadini, e che tutti i cittadini devono combattere, se si vuole avere una speranza ancorché lontana di vittoria.
Dal punto di vista della lotta antiproibizionista, questa è una sconfitta ben mascherata, che ci rallegra solo per quei malati che legittimamente combattevano per un farmaco standardizzato, disponibile, accessibile; l’argomento cannabis terapeutica, altamente inflazionato nei temi antiproibizionisti, non ha più alcun valore, quando tra pochi mesi potranno andare in farmacia ed averlo, come qualunque altro farmaco. Inoltre è incoraggiante presentire come la canapa stia riprendendo il suo posto, di pianta utile e multiforme, non più associata soltanto con “droga” e “criminalità”, anche a “industria”, “economia”, “ricerca”, “eccellenza italiana”.
Da antiproibizionista apprezzo la scelta dell’Istituto farmaceutico militare, che ci mette al riparo da attacchi della destra ideologica, diffidente e polemica, chi più affidabili dei militari? In ogni caso, l’avanzamento nel diritti ai farmaci cannabinoidi sgombra il campo e lo chiarisce.
La lotta per la libera coltivazione domestica, sostenuta da un movimento mondiale che vede nella libera coltivazione della canapa (e delle foglie di coca, per ora, ma ben presto anche del papavero da oppio, per il diritto alle terapie del dolore, o cure compassionevoli) il primo passo di un percorso di uscita dalla devastazione della war on drugs, dovrebbe proseguire con slancio, ora che è liberata dall’aspetto terapeutico, se non in una accezione di prevenzione e, di nuovo, di autodeterminazione delle cure, diritti che riguardano tutti i cittadini e non solo alcune categorie, malati, tossicodipendenti, imprenditori, ecc.
Il secondo motivo che fa dell’Italia una enclave proibizionista, dopo la forza delle mafie sul territorio e sul governo, è la litigiosità e la disunione dei movimenti antiproibizionisti. Da qui, come sempre, bisogna ripartire