Due etti di fumo e 7 piante in casa: è per uso personale, studenti assolti
Detenere 200 grammi di cannabis e coltivare sette piante non è reato nel caso in cui sia manifesto che non vi sia attività di spaccio ma semplice consumo personale. Lo ha stabilito il tribunale di Ferrara con una sentenza di assoluzione, pronunciata martedì dal giudice Franco Attinà nei confronti di tre giovani studenti universitari, che è destinata a fare storia.
L’ORDINE DEI FATTI
Nella primavera del 2014 la Finanza all’aeroporto di Milano-Malpensa intercetta un pacco che viaggia dalla Spagna ed è indirizzato a Ferrara, contenente 100 grammi di erba e 98 di hashish, avverte i colleghi di Ferrara che ne monitorano la consegna. A ritirare il pacco sono appunto tre studenti della città estense. I finanzieri entrano in azione e perquisiscono la casa dove vivono in affitto, trovando anche 7 piante di cannabis in stato di coltivazione. Scatta la denuncia per detenzione e coltivazione ai fini di spaccio.
LA STRATEGIA DELLA DIFESA
I tre ragazzi sostengono fin da subito che è tutto per uso personale, affermano di fumare una media di 25 grammi a testa ogni settimana, e di coltivare solo per tre motivi: ridurre i costi, non andare dagli spacciatori, conoscere la qualità di ciò che fumano. Mentre i loro avvocati, Luca Morassutto e Maura Tomasi, mettono in luce la mancanza di indizi che provino lo spaccio: niente suddivisione in dosi, niente mazzette di contanti, niente agendine con nominativi e appuntamenti loschi, nessun conto corrente con cifre fuori dalla norma, nessuna intercettazione telefonica compromettente. Mettono in luce, anzi, come nelle loro vite quotidiane si specchiavano le condizioni di vita tipiche dello studente fuori sede.
IL RICORSO ALLA CORTE COSTITUZIONALE
Gli avvocati a questo punto – come raccontato da un quotidiano locale – chiedono la sospensione del processo e il rinvio degli atti alla Corte costituzionale. Il motivo è che alla Corte d’appello di Brescia c’è in ballo un caso simile, rinviato ai giudici costituzionali perché la norma che punisce la coltivazione (l’articolo 73 del dpr 309/1990) creerebbe una disparità di trattamento per chi autoproduce solo per se (punito penalmente) e chi acquista al mercato nero (punito con una mera sanzione amministrativa). Il giudice non concede il rinvio, ma approva la sospensione in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale, che arriva, dichiarando però non fondata la questione. In più c’è una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, datata 2008, che afferma che coltivare è reato per il semplice fatto che aumenta disponibilità di droga sul mercato.
IL FATTO NON COSTITUISCE REATO
La condanna pare a questo punto assai probabile, ma gli avvocati chiedono invece l’assoluzione piena degli assistiti. Sostengono di fronte al magistrato che il “principio di offensività” stabilisce che deve essere leso il bene giuridico tutelato dalla norma, che in questo caso non è la salute individuale ma quella pubblica, e che il diritto penale non ha il compito di moralizzare ma di porsi a presidio di beni giuridici che la collettività percepisce come degni di essere tutelati. Quindi, se quel bene non viene aggredito perché coltivo ma non spaccio è evidente che la condanna sarebbe iniqua. Una interpretazione che fa breccia al punto che il giudice ha assolto i tre studenti con formula piena, “perché il fatto non costituisce reato”.