Editoriali e contenuti

Dolce Vita 42 – Settembre/Ottobre 2012

2014-04-25 04.46.43 pm“Orandum est ut sit mens sana in corpore sano”, cantava il poeta latino Giovenale nel secondo secolo della nostra era (Satire, x, 356): bisogna pregare gli Dei perché ci concedano una mente e un corpo in salute. Nient’altro che questo va chiesto alla divinità: non la ricchezza, non la gloria, e neppure la fortuna. Soltanto la buona salute, proprio come dicevano, e forse ancora dicono, le nostre mamme e le nostre nonne: “Finché c’è la salute…”.

Il punto essenziale, però, è un altro: per Giovenale, come per tutta la civiltà classica, mente e corpo sono una cosa sola, inscindibile, inseparabile: la salute dell’una e dell’altro vanno di pari passo perché noi siamo, contemporaneamente, un corpo e una mente.

Di più: il corpo senza l’anima muore, l’anima senza il corpo si dissolve. I buddhisti indicano gli esseri senzienti con una sola parola composta: namarupa, cioè, appunto, “mentecorpo”. Oggi sappiamo che la mente (l’anima, il pensiero) è un processo biochimico, è una parte del corpo fisico. Gli Antichi, prima che la grande onda cristiana seppellisse la loro civiltà almeno fino al Settecento materialista e scettico, lo avevano capito benissimo.

E noi? Noi cristiani d’Occidente abbiamo tradito Giovenale al punto da capovolgere il senso profondo del suo verso, trasformandolo in un proverbio da istruttore di educazione fisica. “Mens sana in corpore sano” significa, in italiano corrente, che la cura del corpo aiuta la chiarezza del pensiero, la cui sovranità è tuttavia indiscussa. Il cristianesimo ha svalutato il corpo fino a condannarlo come sede del peccato, identificato a sua volta con la carnalità, la fisicità pulsionale della vita umana; ha dipinto la nostra esistenza come una caduta, come un tonfo nell’abisso della carne da cui dobbiamo riscattarci con la penitenza, la rinuncia e l’ascesi; ha visto nel corpo, secondo le parole di san Paolo, la prigione dell’anima. E’ in questo contesto culturale che Giovenale viene riletto e reinterpretato, concedendo all’esercizio fisico la funzione ancillare e subalterna di sostegno all’attività mentale e spirituale.

Intendiamoci: è vero che un po’ di attività fisica, una sana alimentazione e, in generale, la cura della salute, contribuendo al benessere generale, aiutano anche a pensare meglio. Ma questo accade precisamente perché il ragionamento è un’attività fisica e biochimica, come la digestione, e le reti neuronali che ci fanno provare emozioni, sentimenti e pensieri sono materia, non spirito. Cartesio collocava gli animali in una categoria inferiore e separata da noi perché li considerava semplici macchine. Ma anche la “materia pensante” di Cartesio è una macchina: soltanto molto più complessa e intricata da comprendere. E ogni volta che gli uomini non capiscono una cosa, ricorrono alla superstizione: è stato così con il lampo e il tuono, è stato così con la ragione e il sentimento.

Pensarsi come una macchina estremamente complessa, i cui componenti sono gli stessi che formano il resto dell’universo, non significa affatto svilire la natura umana. Al contrario: per quanto ne sappiamo, siamo gli unici a renderci conto di essere una macchina, e a poterne contemplare la meraviglia. E questo non è poco.

(editoriale numero 42)



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