Dolce Vita 41 – Luglio/Agosto 2012
Nel mondo greco e romano il tempo era modellato sull’alternarsi delle albe e dei tramonti, dei raccolti e delle stagioni: era un tempo circolare, dove ogni cosa – un fiore, un intero universo – era destinata prima o poi a ritornare. Gli orientali hanno ancora questa immagine del tempo; in Occidente il cristianesimo ha invece imposto la linea retta: il tempo è una progressione irreversibile di eventi che muovono in un’unica direzione. La salvezza, per i cristiani. Il socialismo, per i marxisti. Per tutti noi, il progresso.
La scienza contemporanea dubita della linea retta e propende per il cerchio: all’universo in espansione seguirà prima o poi una contrazione, ad ogni big bang corrisponde un big crunch, nel tempo infinito infiniti universi prendono forma e poi collassano. Non ho idea se sia davvero così, ma mi piace pensare che Buddha e gli Stoici avessero ragione. Perché, sebbene la forma del tempo sia alla fin fine ininfluente sulla nostra vita, che è in ogni caso brevissima, l’idea che ne abbiamo determina il nostro modo di abitarlo. Se il tempo è una freccia, cercherò sempre di rincorrerlo. Se è una ciambella, proverò a sistemarmici nel modo più comodo.
Gli Antichi e l’Oriente insistono ossessivamente su un punto: il momento presente. Vivere pienamente il momento presente è la chiave della saggezza, della felicità e (secondo Epicuro) del piacere. Passato e futuro ci lusingano e ci minacciano, ci affogano nei rimpianti e nelle recriminazioni, ci espongono alla paura e all’incertezza: sono la radice della nostra continua instabilità emotiva, del nostro eterno pencolare fra desiderio e timore, fra nostalgia e rimorso.
Ciò che è stato non può farci nulla proprio perché è passato, non è più con noi; ciò che sarà non lo possiamo sapere: la nostra mente, invece, rievoca e anticipa, nel tentativo di riempire il vuoto. Ma il presente non è affatto vuoto. Non è l’attimo fuggente: è il tempo della nostra vita. È il luogo dove siamo in ogni singolo momento, è la nostra unica casa, ed è la nostra vera responsabilità. Troppo facile progettare il futuro: è di ciò che faccio oggi pomeriggio che devo rispondere, a me stesso e agli altri. Il futuro, come la morale, è l’ultimo rifugio dei mascalzoni.
Orazio, il più amato fra i poeti latini, ha raggiunto l’immortalità grazie al suo “carpe diem”, che oggi campeggia nelle trattorie, negli agriturismi, sulle bottiglie di vino e ovunque si celebri la bellezza della vita. La citazione viene dall’undicesima Ode del primo libro: otto versi che meritano di essere riletti anche in prosa:
“Non indagare (è vietato saperlo!) quale fine gli dèi ci abbiano dato, mia cara Bianca, e non tentare neppure i calcoli degli astrologi. Molto meglio accettare ciò che sarà. Che Giove ci abbia assegnato altri inverni, o che questo che fa spumare il Tirreno sugli scogli sia l’ultimo, sii in ogni caso saggia: prepara un po’ di vino, e in uno spazio così breve com’è la nostra vita non coltivare speranze troppo lunghe. Mentre parliamo, già fugge il tempo invidioso. Cogli l’attimo, e del futuro fidati meno che puoi.”
(editoriale numero 41)