Dolce Vita 39 – Marzo/Aprile 2012
Le società umane si reggono sui divieti e sulle proibizioni: ciascuno di noi nasce libero, e per tutta la vita, dall’asilo alla pensione, deve combattere strenuamente per conservare almeno una parte della sua libertà originaria. La storia dell’uomo è precisamente la storia della sua libertà (individuale) e della sua costrizione (sociale).
La libertà non ha padroni, perché si identifica con noi stessi. Io sono la mia libertà, e nessuno può comandarmi – se non io stesso. Proprio perché è pericolosa come una tigre selvaggia, la libertà va addomesticata, controllata, e qualche volta fuggita. Ma è un compito che spetta soltanto a noi stessi.
Io solo posso controllare la mia libertà, imporle un limite, suggerirle un ripiego, o semplicemente rinunciarvi. La felicità – quello stato di serenità dell’animo che ci lascia vivere interamente nella pienezza del momento presente – è precisamente l’accordo della tigre con il suo domatore, della mia libertà con la mia volontà.
Più grande è l’influenza dello Stato nella vita delle persone, in qualsiasi campo e per qualsiasi scopo (anche il migliore), e minore è la mia libertà. Se tuttavia è comprensibile – ancorché a dir poco discutibile – che lo Stato possa stabilire i programmi scolastici o gli ingredienti della mozzarella, è certo che ogni influenza pubblica nella sfera privata è sempre e comunque inaccettabile.
Lo Stato non può decidere per me sulle mie preferenze sessuali o religiose, sul mio stile di vita o sulle mie opinioni. E non può neanche decidere se io debba restare ancora su questa terra oppure no – il corpo è la mia prima, inalienabile proprietà. Non c’è nessuna bioetica, nessuna legge, nessun prete, nessun politicante e neanche nessun medico che abbia diritti su di me: soltanto io, e le persone che mi sono care, possiamo decidere sulla mia vita, il mio corpo, la mia morte.
Soltanto ciò che è pubblico – che cioè ha conseguenze dirette sugli altri – può essere regolamentato dallo Stato; nulla di ciò che è privo di conseguenze sugli altri può essere vietato.
Il proibizionismo si fonda dunque su una premessa illegittima: lo Stato infatti non è autorizzato a proibire l’alcol, o la cannabis, o l’eroina, non più di quanto possa mettere fuori legge l’islam o l’eterosessualità, la carne rossa o gli sport estremi.
Il proibizionismo è destinato sempre a fallire, perché applica alla sfera dell’individuo i metodi polizieschi che lo Stato impiega nella sfera pubblica. Ma la libertà del singolo non è comprimibile, e prima o poi si prende la rivincita. Soltanto io posso decidere se essere musulmano o buddhista o ateo, se mangiare carne o diventare vegetariano, se fumare l’erba o le sigarette o nessuna delle due o entrambi.
La disobbedienza civile è precisamente questa costanza della libertà a fronte del muro proibizionista: è l’acqua che lentamente lo erode, e che un giorno lo travolgerà. Continuiamo dunque a fare liberamente tutto ciò che vogliamo, purché questo non rechi danno agli altri esseri senzienti: ne abbiamo pieno diritto.
Continuiamo dunque a coltivare e a raccogliere la nostra mela proibita tutte le volte che ne abbiamo voglia, nell’istante esatto in cui questa matura, e gustiamone sereni e festosi il sapore zuccherino, la consistenza perfetta, la delicata fragranza, il colore laccato: né Dio né il Serpente hanno alcun diritto su di noi. E del resto come potrebbero averne, se non esistono neppure?
(editoriale numero 39)