Dolce Vita 36 – Settembre/Ottobre 2011
Troppo facile, indignarsi. Troppo facile elencare a voce alta le cose che non vanno, additare al pubblico ludibrio i mille sfasci e le mille corruzioni, manifestare con veemenza la propria diversità, il proprio scandalo, la propria indignazione. Già, perché l’indignazione o è pubblica o non è. Nessuno s’indigna da solo: per indignarsi, ci vuole sempre una piazza da riempire, un appello da firmare, un social network, un giornale, una manifestazione, un comizio. L’indignazione è diventata pubblica e collettiva, in Spagna è persino il nome di un movimento politico, e un simpatico pamphlet sull’argomento ha scalato le classifiche di vendita di tutta Europa.
Ma che cosa significa ‘indignarsi’? Che cos’è la dignità, e da che cosa è messa a repentaglio? Di fronte a parole come queste, che hanno una sfera di significato assai am- pia e prevalentemente morale, bisognerebbe sempre diffidare. Una battaglia politica, cioè pubblica, non dovrebbe mai ricorrere a categorie etiche, che per definizione sono private. Altrimenti si torna all’Inquisizione o ai Tribunali rivoluzionari, che scrutavano le coscienze in assenza di fatti. Non c’è nulla di ‘degno’ o ‘indegno’ in sé, se ci pensiamo bene; soprattutto, la dignità (la mia, la vostra) non è misurabile da nessun altro che da noi stessi.
Indignarsi è facile perché libera senza troppo sforzo da una tensione accumulata, e soprat- tutto perché fa fare bella figura in società. Indignarsi è alla moda, e non costa nulla. Soprat- tutto, non comporta nessun tipo di conseguenza. Chi si indigna (in pubblico) è libero di comportarsi in privato come vuole, purché segua le linee guida del nuovo conformismo di massa. Dignità e indignazione sono oggi divenute armi contundenti a sinistra, dopo esserlo state per secoli a destra. “Indegni” sono stati, nel corso del tempo, le streghe e gli eretici, gli operai comunisti e gli omosessuali, il sesso prima del matrimonio e persino la minigonna. Adesso tocca all’altra parte.
Indignarsi è indegno, perché viene meno alla regola fondamentale che dovrebbe guidare la nostra ragione e il nostro comportamento: sforzarsi di comprendere, e trattenersi dal giudicare. A dirla tutta, dovremmo indignarci soltanto di noi stessi, e comportarci di conseguenza. Del resto, il solo modo che abbiamo per cambiare gli altri è cambiare noi stessi, cioè quell’unico pezzo di mondo che ci compete veramente. Manifestare è divertente, e qualche volta è utile: ma lasciamo l’indigna- zione ai preti e agli spretati.
(editoriale numero 36)