Dolce Vita 32 – Gennaio/Febbraio 2011
Sconfiggere un pregiudizio non è facile, perché la nostra mente senza pregiudizi non potrebbe funzionare. L’esperienza della conoscenza è, in fin dei conti, il tentativo (a volte riuscito, altre meno) di ricondurre l’ignoto a categorie note. Quando incontro un gatto per strada, lo riconoscono come gatto perché nel mio cervello è presente un’immagine generale del gatto. È vero che questo tipo di pregiudizi, cioè di giudizi formali che precedono nella nostra mente l’esperienza concreta, e poi la organizzano e la etichettano, hanno una grande utilità pratica. Ma dobbiamo sapere che il meccanismo mentale che s’innesca quando associamo l’immagine concreta di un musulmano a quella mentale di un terrorista è esattamente lo stesso. Il nostro cervello procede in automatico.
Fra gli automatismi del nostro cervello c’è anche quello che fa corrispondere l’ignoto e lo sconosciuto al pericolo. Quando vediamo qualcosa di diverso da noi, è come se una lucina rossa si accendesse da sola. La foggia dell’abito, la lingua o il dialetto, il colore della pelle sono altrettanti segnali che decodifichiamo secondo i pre-giudizi di cui disponiamo al momento. Sostituire un pregiudizio con un altro di segno opposto non muta la situazione: se per esempio mi convincessi che tutti gli stranieri sono per definizione buoni, non farei affatto un buon servizio alla causa dell’integrazione e della tolleranza, e potrei persino espormi a qualche pericolo.
Per sconfiggere un pregiudizio bisogna togliere il pilota automatico al cervello e impugnare saldamente il volante. E questo richiede uno sforzo impegnativo, e soprattutto costante. La nostra mente è la causa di tutte le nostre sensazioni, opinioni, idee, sentimenti, e azioni; da un certo punto di vista è l’origine e l’orizzonte del mondo intero: è normale che gran parte delle funzioni che le competono – per esempio, far funzionare il cuore o i polmoni, farci scappare quando si è inseguiti o farci allontanare la mano dalla fiamma – avvengano in automatico, senza riflessione alcuna. Se pensassimo a quando compiere il prossimo battito cardiaco, saremmo già morti. La consapevolezza è quell’azione della mente che sospende l’automatismo e riesamina da capo la situazione prima di prendere una decisione definitiva. La consapevolezza è la chiave per accettare la differenza. Riconoscendoci diversi gli uni dagli altri, siamo per dir così costretti ad accettarci. È la differenza di ciascuno di noi a fondare l’unità del genere umano. Se fossimo tutti uguali, saremmo sassi – e i geologi sanno che non esiste un sasso uguale ad un altro.
Dunque il punto non è accettare che esistano i neri, o i biondi, o le donne, o quelli che fumano la pipa, o i vegetariani. Il punto è riconoscere che ciascuno di noi è unico. Una società di classi, o di etnie, o di religioni è una società razzista, intollerante e in definitiva violenta. Una società di individui e di singolarità pratica la tolleranza prima di tutto per interesse personale: per sviluppare tutta intera e senza condizionamenti la mia personalità, occorre che gli altri sviluppino indisturbati la loro.
(editoriale numero 32)