Dolce Vita 28 – Maggio/Giugno 2010
“Est modus in rebus”, dicevano gli Antichi (e i professori, e i genitori, e i preti, e tutte le autorità): c’è sempre una misura nel fare le cose. Gli eccessi e le esagerazioni sono cioè sbagliati, vanno evitati e condannati. A me questa frase, e il concetto che voleva esprimere, hanno sempre dato un profondo fastidio. Ho sempre pensato, da quand’ero ragazzo, che fosse vero esattamente il contrario: è agli estremi, è sul margine che balena l’intelligenza. In mezzo c’è soltanto la mediocrità, pensavo. Meglio smodati che ammodo.
La gran parte dei giovani la pensa ancora così, e probabilmente fa bene. Nella formazione di una personalità la trasgressione, la provocazione, l’oltrepassamento del limite consentito sono fattori fondamentali. Ma l’esagerazione è un’altra cosa. L’esagerazione è un fatto meramente quantitativo, non qualitativo. Il formaggio non diventa più gustoso se ne mangio cinque chili, né la ventiseiesima canna della giornata è più piacevole della prima. Anzi. L’esagerazione è una forma di insoddisfazione nevrotica, che ha molto a che fare con un’idea di possesso persino cannibalico del mondo che ci circonda, e molto poco con il senso di libertà che ogni sana trasgressione porta con sé.
Dal punto di vista del mercato, l’esagerazione è una manna dal cielo, ossessivamente stimolata dalla pubblicità, dai modelli culturali, dal mainstream mediatico. Se non esagerassimo (nel consumo di cibo, di energia, di mode, di carta igienica o di telefilm), l’intera economia andrebbe gambe all’aria.
Dal punto di vista spirituale, invece, esagerare è il contrario di essere: significa infatti uscire da sé, perennemente insoddisfatti, preda di ogni pulsione (o di ogni campagna pubblicitaria). Il materialismo non consiste nell’esaltazione del piacere dei beni materiali: noi siamo materia, condividiamo gli stessi atomi di un iPod, e non si capisce perché non dovremmo godere dell’unica cosa che ci fa godere: la materia. Il materialismo è invece quel movimento che schiaccia il consumatore sulla merce, lo costringe a consumarla senza fine e, dunque, senza mai trarne un vero godimento, e in questo modo attiva il circuito dell’abuso. Il materialismo da un lato non si preoccupa delle conseguenze, né del futuro (chissenefrega, dunque, se il pianeta lentamente si spegne); dall’altro però invoca continuamente il futuro, anzi ne è l’araldo battagliero: domani ci sarà una nuova merce, un nuovo prodotto, una nuova moda da sperimentare e consumare, ma subito e in fretta, perché dopodomani altre indispensabili meraviglie arriveranno sul mercato.
L’uso responsabile è il contrario dell’abuso. Non può essere definito da nessuna legge o regolamento (Dio ci scampi!), ma può essere insegnato e imparato. L’uso responsabile è la regola generale cui una società di uomini liberi dovrebbe attenersi: di tutto un po’, con curiosità, se e fino a che se ne ha voglia, senza morirne. Dovrebbe valere per ogni azione o gesto o sostanza o situazione, per l’eroina come per il cattolicesimo, per il sesso come per il petrolio. Staremmo tutti molto meglio, c’è da scommetterci.
(editoriale numero 28)