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Con il nuovo decreto la Cannabis Light è illegale? Proviamo a fare chiarezza

Con il nuovo decreto la Cannabis Light è illegale? Proviamo a fare chiarezza
È stato approvato il decreto che inserisce la canapa tra le piante officinali e che, come previsto al punto 4, prevede che foglie e fiori di canapa vengano disciplinati dal testo unico sugli stupefacenti, vietandone la coltivazione senza l’autorizzazione del ministero della Salute.

Un provvedimento che era già stato anticipato, e che aveva portato il settore sul piede di guerra, facendolo sospendere. Se da una parte è comprensibile la reazione di tutto il settore, che, mentre nel resto del mondo si procede con le legalizzazioni, vede l’Italia fare un pesante passo indietro, dall’altra cerchiamo di analizzare la situazione, per capire cosa si prospetti per il futuro.

Ne abbiamo parlato con l’avvocato Carlo Alberto Zaina e queste che trovate di seguito sono le sue considerazioni.

Piante officinali e proprietà mediche

La bozza del decreto in questione mira a disciplinare ed aggiornare il segmento delle piante officinali. Pare, quindi, utile, prima di procedere oltre, ricordare cosa si intenda per pianta officinale. La definizione di PIANTA OFFICINALE ci permette di sostenere che, con tale qualifica si individuano “piante medicinali, aromatiche e da profumo”. Il carattere che, primariamente, connota la cd. pianta officinale è quello di essere, per le proprie peculiarità di aroma e profumo, strumentale alla correzione del gusto dei farmaci, sovente poco gradevole. Ciò dimostra che non vi è affatto necessaria coincidenza fra le qualifiche di officinale e di medicinale, che a talune piante possono venire riconosciute. Dunque, le piante officinali possono venire usate sia in abbinamento con quelle medicinali, che in modo autonomo – seppure per scopi differenti (fitoterapici, erboristici, liquoristici, aromatizzanti, igienici, profumieri, cosmetici).
Non può essere escluso, peraltro, che si possa verificare qualche singola caso di pianta che possa risultare sia medicinale, che officinale, ma si tratta di casi minori. Le descritte destinazioni appaiono rilevanti, in quanto il presunto divieto di coltivazione di foglie ed infiorescenze viene a confliggere, in modo irreversibile, con la circostanza che, proprio in tali specifiche parti della pianta, sono presenti cannabinoidi – quali ad esempio su tutti il CBD – che possono essere destinati agli utilizzi officinali sopra ricordati. Quindi, ecco il primo elemento di grave contraddizione (od impreparazione) che emerge e che rende discutibile oltremodo il decreto.

I commi 3 e 4 dell’articolo 1

In secondo luogo è importante soffermarci sul contenuto dei co, 3 e 4 dell’art. 1.
Il primo dei due commi sancisce l’inserimento nel novero delle piante officinali anche delle coltivazioni indoor (con buona pace di alcune Procure ed alcuni Tribunali del Riesame, per i quali coltivare in ambiente protetto sarebbe una circostanza sintomatica di illiceità) e dell’attività florovivaistica (situazione che approfondisce la contraddizione rispetto al divieto di produzione di foglie ed infiorescenze di cui al successivo co. 4).
Il comma 4 alla seconda frase recita, a propria volta, testualmente “La coltivazione di piante di cannabis ai fini della produzione di foglie ed infiorescenze o di sostanze attive ad uso medicinale è disciplinata dal decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, che ne vieta la coltivazione senza la prescritta autorizzazione da parte del Ministero della Salute”.
Questa locuzione introduce tutta una serie di problematiche.

La prima concerne l’interpretazione in senso stretto della stessa.
Da un lato, si usa genericamente il termine “di piante di Cannabis”, e non si menzionano, invece, specificamente le piante di canapa Sativa L. È ben vero che questa ultima specie rientra in quella più generale, ma così come concepita l’espressione usata in decreto appare pleonasticamente sconcertante. La coltivazione di Cannabis (termine questo che, invero, riguarda usualmente la piante idonee a produrre un alto contenuto di THC, quindi di carattere stupefacente) è naturalmente illecita e riconducibile all’ambito del dpr 309/90. Non vi era, quindi, certo necessità di ribadire un concetto solare. Da altro lato, invece, non si comprende se menzionando la coltivazione di piante di cannabis ai fini della produzione di foglie ed infiorescenze e facendo seguire alle stesse il termine “sostanze attive ad uso medicinale”, il redattore del decreto abbia fatto solo una grossolana confusione, oppure abbia inteso – seppure malamente – collegare direttamente le foglie e le infiorescenze all’uso medicinale.
Nel primo caso, permangono le ombre di grave contraddizione precedentemente dedotte, le quali privano di valenza, sul punto specifico, il decreto in questione.
Nella seconda ipotesi, invece, il divieto risulterebbe circoscritto solamente a quelle coltivazioni che fossero dichiaratamente finalizzate a produrre sostanze per uso medicinale, senza, peraltro, preventiva autorizzazione. In questo ultimo caso, appare evidente che si tratterebbe di una misura preventiva funzionale al procedimento delibativo – in corso – in base al quale è ormai previsto che, nel nostro ordinamento, il CBD, ritenuto dall’AIFA cannabinoide farmacologicamente attivo, debba venire disciplinato da un complesso normativo, che ne impedisca una produzione – se a scopi medicali – al di fuori dei circuiti della multinazionali farmaceutiche.

La seconda, invece, implica l’analisi del valore e della portata degli effetti del decreto in questione che appartiene alla categoria dei decreti ministeriali. Un decreto ministeriale (D.M.), che diviene, come nella specie, interministeriale quando impegna la competenza di diversi dicasteri e deve quindi essere adottato di concerto tra gli stessi, è un mero atto amministrativo.

Esso come tale è suscettibile di essere impugnato dinanzi al TAR, diversamente da una legge, che al più potrebbe venire dichiarata incostituzionale o disapplicata ai sensi l’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 (All. E). In buona sostanza, un atto puramente amministrativo non può derogare, quanto al contenuto, alla Costituzione e agli atti aventi forza di legge sovraordinati, né può avere ad oggetto incriminazioni penali, stante la riserva assoluta di legge che vige in detta materia (art. 25 della Costituzione) (Cfr. F. Lisena Manuale di diritto costituzionale Molfetta 2019 pp. 324-327).

In concreto, la conseguenza tangibile che deriva dalla corretta ricostruzione della valenza giuridica dell’atto in questione è l’ininfluenza dello stesso, sia oltre i limiti, in senso stretto, dell’argomento che intende disciplinare – le piante officinali – sia, sopratutto, in relazione alle presunte ricadute penali che talune previsioni (i citati co. 4 e 9 dell’art. 1) che tanto hanno suscitato preoccupazioni nell’ambiente.

 

La sentenza della Corte europea

È, altresì, importante evidenziare un ulteriore elemento che deve essere tenuto in debita considerazione.
Non può passare sotto silenzio la decisività dell’applicazione degli artt. 34 e 36 TFUE, richiamati nella decisione della Corte di Giustizia Europea relativa al caso Kanavape del 19 novembre 2020. Tale sentenza, proprio per i riflessi tassativi che essa implica, permettendo l’uso e la circolazione commerciale dell’intera pianta di canapa, ove essa contenga THC con livelli inferiori alle soglie di legge, evidenzia il vulnus che il mercato della canapa può soffrire a seguito di interventi di polizia e sequestri.

 

Conclusioni

Dunque , la volontà di criminalizzare la coltivazione di piante, con specifico riferimento alle foglie ed alle infiorescenze, costituisce una scelta governativa, che si fonda su di una spiccata carenza di conoscenze scientifiche specifiche, e su una mala applicazione di criteri normativi da parte degli organi governativi emittenti, con invasione di ambiti disciplinari invero preclusi.
Questo decreto, che, si ribadisce, appartiene ad una categoria di fonte del diritto di rango inferiore e secondaria sia rispetto a quelle primarie (leggi ordinarie statali, gli atti aventi forza di legge, le leggi delle Regioni e delle province autonome), che rispetto alle convenzioni internazionali ed alle relative decisioni giurisdizionali applicative, non può, quindi, contenere previsioni che qualifichino specifiche condotte come penalmente rilevanti.
Ritengo, pertanto, corretto precisare che nulla pare innovato rispetto alla situazione precedente (a tacere che sta circolando una bozza priva di sottoscrizione) e che l’unica conseguenza indubbiamente sfavorevole consisterà nella circostanza che le forze dell’ordine ed una cospicua parte della magistratura inquirente si farà forte di utilizzare questo D.M. per procedere a nuovi sequestri e nuove iniziative giudiziarie, che sino ad oggi – salvo rarissimi esiti negativi, tuttora sub-judice – si sono concluse sempre a favore degli imputati.
Rimane l’amarezza per un approccio inaccettabile ed aprioristicamente orientato da parte dello Stato e dei suoi organi esecutivi, che è foriero di gravi conseguenze economiche e morali per gli imprenditori del settore.


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