Dai nativi americani la lezione per una convivenza pacifica
Nel piazzale dell’ecovillaggio Tempo di Vivere, in Emilia Romagna, cento persone se ne stanno sedute in cerchio. Qualcuno siede a terra, altri preferiscono la comodità di piccole balle di paglia. Si guardano negli occhi come se ognuno fosse alla ricerca di una qualche reazione. Una qualsiasi: un cenno, un’espressione del viso, un movimento. Nessuno parla, il silenzio è quasi totale. Quasi, perché poco oltre quel piazzale una ventina di bambini corrono e saltano facendo un gran baccano. È agosto inoltrato e il sole, sui colli piacentini, spacca le pietre.
Tra quelle persone una di loro stringe nelle mani un piccolo bastone piuttosto appariscente, tutto decorato, e con una piuma che spunta da una delle estremità. È un bastone della parola. In quel cerchio umano solo chi lo stringe nelle mani può parlare. Gli altri, semplicemente, ascoltano.
Dopo il silenzio, ecco le parole che quel silenzio lo spezzano. Hanno la voce di Simon Jamnik: è proprio lui ad avere tra le mani quel legno tutto decorato. È lui l’erede spirituale di Manitonquat, capo indiano del popolo di nativi americani Wampanoag, uno dei principali promotori della Via del Cerchio in tutto il mondo. Per oltre quarant’anni Manitonquat ha provato a riprodurre le dinamiche del Cerchio ovunque andasse: nelle carceri, tra i migranti, nelle associazioni, all’interno dei consigli d’amministrazione delle aziende, nelle scuole. Perché il Cerchio è un dispositivo di orizzontalità in un gruppo, è una modalità di dialogo. Dopo la sua morte nel 2018, Simon ne ha raccolto il testimone. Accanto a lui c’è Ellika, la donna che per una vita intera ha accompagnato Manitonquat nei suoi viaggi.
La paura dietro le scelte
«Nel nostro tempo le decisioni, anche quelle politiche, sono dettate dalla paura – dice Simon ai cento, rompendo quel silenzio solenne. Tutti ascoltano e, in un modo o nell’altro, pendono dalle sue labbra -. La paura genera sempre divisioni e conflitti. Come nel caso della pandemia che sta affliggendo l’umanità. Le persone si stanno scontrando tra di loro, entrano in conflitto, si attaccano a vicenda per affermare le proprie scelte e idee. Vi invito a prendere le distanze da tutto questo: non attaccate nessuno per le sue scelte e idee, cercate solo di essere comprensivi. Ognuno di noi, oggi, sta prendendo decisioni mosso da tre tipi di paura: la paura di ammalarsi, la paura di essere eccessivamente controllati, la paura di morire. Quando parliamo con qualcuno chiediamoci sempre qual è il tipo di paura che sta dettando le sue parole. Prima ancora chiediamoci qual è invece la nostra: a quale paura apparteniamo? Siate gentili».
Dopo queste parole, alcuni prendono tra le mani il bastone. Esprimono i propri sentimenti sulla paura. Qualcuno accenna a paure antiche, figlie dell’infanzia. Sentimenti intensi, insomma. Gli altri ascoltano. Nessuno giudica, nessuno critica. L’unico fine di quei cento è provare a comprendere. Perché cosa puoi fare con la paura, se non comprenderla? Sembra questo l’unico modo per attraversarla.
Un esperimento chiamato empatia
Dopo alcuni minuti il cerchio si scioglie. Invitati da Simon e Ellika, ognuno trova un compagno in modo da formare una coppia. Il piazzale assume così un nuovo design: non più quello di un cerchio ma quello di tante coppie disseminate qua e là, casualmente. Si tratta di un esperimento, in realtà. Un esperimento al quale decido di partecipare. Trovato il mio compagno, vengo invitato a esprimere in modo libero e empatico i miei sentimenti sulle mie personali paure. Paure umane, come quelle di tutti d’altronde. Ho alcuni minuti per farlo e, fino a che il tempo a mia disposizione non scade, chi ho davanti dovrà ascoltarmi. Possibilmente con empatia. Scaduto quel tempo, la situazione si ribalterà: a parlare sarà il mio compagno e io non potrò fare altro che ascoltare. Chi ho davanti è un perfetto sconosciuto. Non ne conosco nemmeno il nome. Eppure decido di aprirmi ugualmente, sia parlando sia ascoltando. Quelle paure decido così di esprimerle, decido che per una volta posso anche smetterla di tenermele per me. Semplicemente le condivido. Quanti problemi nascono dalla nostra riluttanza a comunicare in modo chiaro i nostri bisogni? Ma soprattutto, cosa c’è di male nell’aprirsi a uno sconosciuto? Cosa potrà mai accadere? Queste le domande che hanno iniziato, fin da subito, a ronzarmi nella testa. Per dieci giorni ho assistito e partecipato a quei cerchi così pregni di emotività. In quei giorni mi sono ritrovato a esprimere i miei sentimenti. Ed è incredibile come questo sia accaduto con degli sconosciuti.
La Via del Cerchio
Ciò a cui ho assistito all’ecovillaggio Tempo di Vivere si chiama “Via del Cerchio”. È una vera e propria filosofia di vita. Una filosofia che nasce in seno alle tribù di nativi americani, che si radunavano in cerchio per prendere decisioni, esportata poi in centinaia di comunità qua e là per il pianeta. Esiste anche una rete globale che ha l’ambizione di connetterle tutte (thecircleway.net).
Al di là del folklore che può suscitare un evento sui nativi americani organizzato in Emilia Romagna, la Via del Cerchio è un bello strumento di dialogo per mettere mano ai problemi della nostra società. Il cerchio è infatti una forma geometrica particolare. Nella storia delle culture la si ritrova ovunque. È una figura che rimanda all’idea di totalità, oltre che di uguaglianza. Di fatto, quando un gruppo di persone è seduto in cerchio, tutti possono guardarsi negli occhi: nessuno è escluso dallo sguardo altrui.
Il Cerchio ha le proprie regole. La prima: nessuno può interrompere chi ha la parola. E questo, a pensarci, non è per nulla scontato. La seconda: quando prendi parola, esprimi i tuoi sentimenti senza giudicare. Né te stesso né gli altri. Dunque non accusare nessuno, manifesta solo il tuo stato d’animo. Parla solo di quel che senti quando accadono le cose. Sii gentile, insomma. Terza regola: nel cerchio puoi portare qualunque esperienza ti abbia toccato. Perché ogni esperienza che ci ritroviamo a vivere porta con sé il proprio carico di emozioni e soffocarle è pericoloso: è più utile esprimerle in modo da dare loro un significato. Non è vero che nessuno ci comprenderà: là fuori nel mondo ci sono milioni di persone pronte a capire.
Il Cerchio, una filosofia contro la violenza
Le persone possono radunarsi in un cerchio per prendere decisioni, per esprimere sentimenti, per fare chiarezza. Insomma, il cerchio è una modalità di vita. È una filosofia, appunto. Una filosofia che, in una società sempre più violenta, può fare la differenza. Perché dopo aver realmente ascoltato chi hai di fronte, è difficile provare odio. Quando comprendi le ragioni intime dell’agire altrui, le ideologie passano in secondo piano. E a rifletterci, il più grave deficit del nostro tempo è l’incapacità di comprendere e ascoltare. E quando questo accade, quando non ci si ascolta, non può che esserci conflitto.