Da Mantova alla Siria, gioie e dolori di un viaggio in autostop
«L’autostop è l’incontro assolutamente casuale. Quando una persona si ferma per farti salire, lo fa per infinite ragioni. Chi ti vede sul ciglio della strada ha appena una frazione di secondo per decidere che fare: fermarsi e farti salire, appunto, oppure tirare dritto. È tutta una sensazione, capisci? L’autostop è un’esperienza del tutto istintiva», mi dice Diana Barbieri mentre racconta di quel suo viaggio, poi diventato un libro, da Mantova fino al confine con la Siria. «È come una roulette russa» aggiunge immediatamente, come a voler ribadire un concetto importante offrendone un’immagine. Perché Diana, in Siria, ci è arrivata proprio così: in autostop. Era il 2013, Diana aveva 27 anni e l’azienda per cui lavorava aveva chiuso baracca. Era quello un buon momento per mettersi in cammino, dunque. E così è stato. E quella dell’autostop è stata una scelta che, per due mesi, l’ha portata ad attraversare Italia, Croazia, Montenegro, Albania, Grecia e Turchia. Una traversata a pollice in su, a tu per tu con un flusso inimmaginabile di varietà umana. «Ho preso tutto quel che avevo accumulato negli anni – racconta – e sono partita: era una esperienza che sentivo la necessità di fare. Mio fratello è anche lui un autostoppista e mi ha dato validi consigli per iniziare. Considera che in Medio Oriente, rispetto ad altri luoghi del mondo, esiste una sorta di cultura dell’autostop: è come se le persone fossero maggiormente inclini a questo tipo di accoglienza».
«Non volevo essere condizionata da un solo mezzo di trasporto – mi spiega. L’autostop è un modo di viaggiare che, nella vita, va sperimentato almeno una volta perché ti consente di avere a che fare con la vera natura delle persone. Pensaci un attimo. Stai guidando, sei solo in macchina. Sei lì con i tuoi pensieri immerso nel tuo mondo. Poi vedi in lontananza una persona a bordo strada che chiede un passaggio. Non sai nulla di lei, né come si chiama né chi sia. Eppure, in un attimo, decidi che è meglio fermarsi. Non era previsto tutto questo. Eppure lo fai: ti fermi. Perché? Cosa ti induce ad accostare? Per questo dico che l’autostop ti mette davanti alla natura delle persone, la fa emergere».
L’autostop come turismo sostenibile
E di persone, da Mantova alla Siria attraverso sei paesi, Diana ne ha viste parecchie. Ognuna con le proprie peculiarità, coi propri vizi e virtù, coi propri drammi e le proprie gioie, con le proprie luci e con le proprie ombre. L’autostop aiuta a immergersi nelle situazioni in modo autentico. Le esperienze che vivi non sono programmabili e, spesso, nemmeno sono previste. Puoi solo accoglierle. «L’autostop – continua Diana – è a tutti gli effetti una sorta di turismo sostenibile. Lo è sia dal punto di vista ambientale e soprattutto lo è dal punto di vista umano. Spesso i viaggi organizzati, specialmente quelli apparentemente più esotici, sono infatti come delle grandi messe in scena. Fai la tal escursione, magari con delle guide locali, poi ti fermi a dormire nelle loro case, mangi con loro, ti mostrano un po’ la loro vita e l’indomani te ne riparti. E tutto questo lo fai pagando. È come una messa in scena perché l’esperienza che stai vivendo è determinata proprio da questo, cioè dal fatto che te la sei comprata. Ne consegue che, dall’altra parte, ci sono persone pagate per farti fare l’escursione, per farti mangiare e dormire nelle loro case e per mostrarti qualcosina della loro quotidianità. È tutto mediato dal fatto che hai acquistato quell’esperienza. Probabilmente, poi, a chi effettivamente ti fa entrare in casa arrivano solo le briciole di quel che hai tirato fuori dal portafogli».
E allora è buona cosa farsela quella domanda: quali sono i reali sentimenti dei locali all’arrivo dei turisti? Perché il sospetto che quei locali siano resi simili a fenomeni da baraccone è forte. Fenomeni da immortalare in uno scatto senza chiedere il permesso, privati della loro immagine e, spesso, anche della loro storia. Pezzi da museo che se ne stanno lì, immobili, nell’attesa che qualcuno ci butti l’occhio e ne apprezzi l’esotismo. E così il turismo va sempre più in questa direzione, quella della spettacolarizzazione delle cose. L’autostop è allora una sorta di antidoto. È l’occasione per immergersi nella vita delle persone che incontri e non solo in una qualche messa in scena. «Fare l’autostop ti dà una consapevolezza – mi dice Diana -, quella che nel mondo c’è il bene ma anche il male. Vedere le persone per quello che sono significa anche e soprattutto questo».
La vita, un grande viaggio in autostop
“Viaggio a ogni costo. Autostop dall’Italia al Medio Oriente” si chiama il libro di Diana, che nel mondo dei social network è nota col nome di Close to Eternity. Parlando con lei capisco che il viaggio in autostop è una sorta di metafora della vita. Come nel caso dell’autostop, anche la vita sa essere casuale, non sempre programmabile, spesso imprevista. Puoi però accogliere quel che ti si presenta davanti e trarne il massimo beneficio. Perché sembra che la vita sia un attimo, istintiva, irrazionale. Proprio come un viaggio in autostop. A volte si sperimenta la gioia, altre il dolore più acuto. E sia l’una che l’altro fanno parte della medesima esperienza. Fondamentale è non fermarsi e continuare il percorso… a ogni costo. E il libro di Diana vuole essere una testimonianza di tutto questo. «Ho continuato a viaggiare, nonostante i fatti narrati nel libro. Non ritengo che arrendersi e rinunciare sia la soluzione».