Cultura industriale VS cultura etica
Transizione e decrescita sono teorie che spesso si sovrappongono nel parlare di localizzazione. Una fa parte dell’altra, nessuna delle due può esistere senza l’altra ed entrambe condividono l’idea di comunità locali slegate dall’economia globale e che investano le proprie risorse nella produzione di una parte significativa dei servizi, beni, cibo e energia che viene consumata all’interno della comunità. Teorizzarlo in questo occidente industriale sembra pura utopia. Eppure di comunità che sono cambiate e che stanno cambiando, localmente, ce ne sono già molte. La cultura etica del downsizing, il decrescere bisogni indotti e consumi, è la chiave della scelta e della riuscita.
Non si tratta di ritirarsi nei boschi e nelle caverne come uomini preistorici o di ritornare a vivere senza lavatrice, ma di tornare a ragionare su questi aspetti solo dopo aver creato un nuovo equilibrio tra stabilità e cambiamento, nelle nostre vite quotidiane e nei nostri progetti. Ora più che mai per una vera transizione abbiamo bisogno di capire la natura vera del cambiamento necessario, per superare i limiti di pensiero ereditati dalla cultura industriale. La qualità di questi cambiamenti – e non la quantità – ora, può costituire una delle più importanti caratteristiche del fondare una vera cultura della sostenibilità, le basi per una transizione fattiva oltre che progettuale.
La cultura industriale è l’esatto opposto di una cultura della progettazione a lungo termine, ha sempre prediletto cambiamenti di tipo provvisorio: se c’è bisogno di più energia estraiamo più carbone, quando questo diventa troppo oneroso estraiamo più petrolio, anche se sappiamo che è una risorsa limitata e che finirà, ma intanto possiamo passare a trivellare anche i mari e magari se non si trova petrolio si può optare per i gas. Tutte soluzioni provvisorie su risorse limitate. La cultura della sostenibilità, alle radici di ogni progetto di transizione, è invece una cultura del progetto futuro, dell’attenzione al lungo termine, agli effetti sull’ambiente di generazioni future. C’è cultura della sostenibilità e quindi transizione quando tutte queste scelte vengono applicate fin nei più piccoli ambiti del quotidiano.
La storia, prima delle teorie dell’evoluzione, ci ha dimostrato che le attuazioni di una cultura sostenibile le troviamo solo nei modelli tradizionali centrati sulla vita domestica e sulla connessione quotidiana con la natura, con i cicli delle stagioni e anche con gli aspetti più banali dei lavori domestici, della coltivazione di un orto o dell’istruzione dei figli. È difficile, soprattutto in Italia, non arrivare allora alla conclusione che le donne devono essere il primo motore di questa transizione. L’auspicio, infatti, è anche che si avvii una nuova fase matriarcale, una delle poche possibilità di gestire quel cambiamento su larga scala che ora più che mai è necessario.
Necessario, davvero? Non si risolverà tutto come negli anni ’80? Non troveranno qualche soluzione gli scienziati? È ormai un fatto: i vostri figli e nipoti non avranno una vita improntata sull’illusione di continuo progresso, l’idea con cui le ultime generazioni sono cresciute in gran parte del mondo civilizzato.
Quella che va affrontata ora è invece una vita di incertezze e trasformazioni rapide che si può affrontare solo cambiando dalla cultura industriale a una cultura etica, privilegiando in ogni ambito di vita le azioni concrete di abbassamento dei consumi. Per esempio: il detersivo ecologico bio comprato al supermercato è pensiero industriale. Lava la vostra coscienza ambientalista con un prodotto un po’ meno peggio di altri, ma che è una contraddizione in termini perché per farlo sono serviti un impianto industriale, plastica per imbottigliarlo, combustibili fossili per confezionarlo e muoverlo, impianti di depurazione per smaltirlo. La lisciva o l’aceto sono detersivi che si possono fare in casa e non necessitano di tutto questo inquinamento e energie. Il detersivo bio comprato in negozio è pensiero industriale, il detersivo fatto in casa è cultura della transizione. Una persona che fa la lisciva per tutto il suo gruppo sociale è cultura della transizione. L’unico sistema per concretizzare la transizione è insegnare alle nuove generazioni una vita improntata sulla cultura dell’etica, non sul lavaggio della coscienza con l’acquisto di un prodotto piuttosto che un altro.
Tempo fa a una conferenza una signora mi ha chiesto perché tutto questo impegno per le generazioni future se non ho figli. Ecco, è la sua meraviglia a costituire la risposta. Riacquisire un’etica personale e sociale è la spinta che manca in Italia per attuare una transizione su vasta scala, per fare delle scelte che vadano oltre all’egoismo del proprio piccolo mondo familiare e che comprendano la responsabilità di tutti in questo cambiamento. Non ci sono categorie autorizzate a interessarsene un po’ meno, questo è un modello di pensiero industriale. È ora di adottare tutti il modello di pensiero etico e il comportamento costante, umile e fermo di chi ha la responsabilità imprescindibile del territorio che abita.