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Criteri per la quantificazione del THC: il saggio dell’avvocato Zaina

Criteri per la quantificazione del THC: il saggio dell'avvocato Zaina
Dall’introduzione sul mercato della cosiddetta cannabis light, in Italia sono aumentati a dismisura i processi ad agricoltori e commercianti. Il punto su cui si basa tutta la questione è l’accertamento della quantità di THC all’interno dei prodotti. Per cercare di far luce su questa questione spinosa, l’avvocato Zaina ha scritto un lungo saggio sul tema – che potete trovare qui versione integrale – per analizzare la situazione dal punto di vista giuridico e scientifico-tossicologico e per proporre delle modifiche all’approccio seguito fino ad ora. Lo pubblichiamo con la speranza che possa servire agli operatori di settore, alle istituzioni, ai procuratori e alle forze dell’ordine, per superare questa fase conflittuale e ragionare insieme sulle possibili soluzioni. 

L’aumento esponenziale dei procedimenti penali, con sequestri ed indagini preliminari a carico di coltivatori e di commercianti del settore della cd. canapa light, ha evidenziato ed introdotto – nel contesto giurisdizionale – tutta una serie di questioni tecnico-giuridiche, intimamente collegate con profili di natura chimico-tossicologica.

Si tratta di problematiche del tutto inedite, rispetto alle usuali tematiche processuali.

Esse, infatti, coinvolgono spiccatamente i procedimenti penali relativi alle condotte – asseritamente illecite come tali ricondotte nell’alveo dell’art. 73 dpr 309/90 – aventi oggetto questa tipologia di sostanza.

L’accertamento della quantità del cannabinoide psicoattivo denominato THC (il famoso Delta9tetraidrocannabinolo), eventualmente contenuta nella più complessiva sostanza, attività funzionale a stabilire se lo stesso, una volta eventualmente assunto dal consumatore, sia idoneo a produrre effetti psicoattivi, rimane, quindi, l’investigazione scientifica fondamentale ed essenziale, per il successivo giudizio di (ir)rilevanza penale della condotta del coltivatore o del commerciante.
Con questo mio scritto intendo operare una disamina dell’attuale situazione processuale, affrontando la stessa, sia dal versante strettamente giuridico, sia da quello più propriamente scientifico (in special modo tossicologico).
Vorrei, così, pervenire alla formulazione di una serie di conclusioni, tra le quali ipotesi di metodologia accertativa scientifica in sede procedimentale, che possa risultare la più corretta e la maggiormente idonea a stabilire l’eventuale carattere psicoattivo di sostanze oggetto di indagine.

Intendo anche soffermarmi su proposte di modifiche all’approccio giurisprudenziale sinora seguito.

  1. L’ACCERTAMENTO E LA DECLARATORIA DEL CARATTERE PSICOATTIVO DELLA CANAPA E DEI SUOI DERIVATI AI FINI DI RILEVANZA PENALE.

LO STATO DELL’ARTE SOTTO IL PROFILO GIURIDICO.

1.a IL CRITERIO PERCENTUALE QUALE CONTROVERSIA METODOLOGIA INTERPRETATIVA

Per meglio focalizzare la rilevanza – a fini penali – dell’accertamento della concentrazione di THC, su base percentuale, è necessario muovere da una considerazione preliminare. Esiste, infatti, una sorta di doppio binario, che comporta una distinzione di limiti di soglia, in relazione al Delta9tetraidrocannabinolo. La ripartizione si verifica a seconda che si abbia riguardo alla canapa cd. light [1], oppure che ci si riferisca a quella diversa tipologia di cannabis non industriale, la quale rientra de plano nella previsione sanzionatoria del dpr 309/90 [2].

Nel primo caso (che è, poi, quello che si intende trattare esclusivamente in questa sede), inoltre, si deve operare un’ulteriore differenziazione. La divisione intercorre, quindi, tra l’attività del coltivatore di canapa sativa L in senso stretto (vale a dire che ci si riferisce alle piante presenti in campo), e quella del commerciante del prodotto ottenuto in questo modo (vale a dire che si opera riferimento ai derivati della coltivazione – in special modo alle infiorescenze – posti in commercio) [3].

Il criterio percentuale, che, se correttamente interpretato (soprattutto da magistratura e forze dell’ordine), avrebbe – certamente – potuto (e tuttora potrebbe) costituire uno strumento di facile e di chiara risoluzione dei conflitti, si è, invece, purtroppo, rivelato non totalmente sufficiente ad offrire un parametro certo ed univoco di interpretazione giurisprudenziale. Questa inopinata e sopravvenuta inidoneità de facto appare consequenziale, però, a strane resistenze ermeneutiche giurisprudenziali e non ad una inidoneità genetica del criterio in oggetto.

Queste posizioni di chiusura sono state assunte quale naturale conseguenza di approcci aprioristicamente ed ideologicamente orientati in senso rigorosamente proibizionista  (e disancorati dalla realtà e dalla logica), che hanno, in pratica, sostanzialmente sabotato l’applicazione di tale canone. Ciò nonostante, corre l’obbligo di rilevare che, comunque, si è minimamente consolidato, nel tempo, un orientamento consistente in molteplici pronunzie giurisprudenziali, che si sono rivelate favorevoli ad una corretta applicazione del criterio percentuale.

Al contempo, però, non deve essere sottovalutata la circostanza che la scarsa conoscenza (sia tra il ceto dei giuristi – o presunti tali – sia tra quello dei tossicologi) di taluni meccanismi preliminari fondamentali, (sia scientifici, che di natura logico-giuridica), ha purtroppo permesso il formarsi di un indirizzo, che – seppure tuttora minoritario – ha prodotto (e tuttora produce) risultati che, in qualche modo, hanno condizionato (e condizionano) negativamente il quadro giurisprudenziale generale.

Da un lato, a giustificazione di sequestri probatori di derivati dalla coltivazione di canapa e delle stesse piantagioni (spesso eseguiti, pur in presenza di immediate e tempestive produzioni documentali di certificazioni attestanti la conformità, alle citate soglie, dei compendi oggetto di indagine, da parte degli indagati) ff.oo. e magistratura evocano monocordemente ed esclusivamente la generica necessità di accertare l’effettiva psicoattività degli stessi. Gli inquirenti procedono, così, allo svolgimento di consulenze chimico-tossicologiche, che finiscono, poi, per imperniarsi esclusivamente sulla proposizione di quesiti in ordine al tasso di percentuale contenuto dai reperti da analizzare ed in ordine alle dosi ricavabili.

Indi, in un sempre maggior numero di casi, una volta ottenuta dal consulente (che si sottolinea è sempre nominato dal PM, che agisce ex art. 359 o 360 c.p.p.) [4] risposta alla proposta questione, il PM (Cfr. ordinanza Gip Milano 23.9.2021, in proc. ex art. 263 c.p.p. Fiorentini, inedita) valuta – in modo sorprendente – come insufficiente in sè il dato percentile e, indi, ritiene di dovere approfondire il profilo strettamente ponderale.

Vale a dire, quindi, che, seppure in presenza di un risultato che attesta incontrovertibilmente e scientificamente la conformità della risultanza percentuale (< o = alla soglia dello 0,5%) la pubblica accusa mira a spostare – con l’idea di una nuova specifica consulenza – il tema dell’accertamento della potenziale psicoattività della sostanza sul piano squisitamente ponderale.

Si tratta di una impostazione che non può rimanere esente da critiche, perché:

  1. essa recepisce acriticamente il passaggio della mai troppo conosciuta (e mai abbastanza criticata) sentenza delle SSUU 30.5.2019, n. 30475/19, la quale:
  2. a) esclude – apoditticamente – il valore del dato percentuale;
  3. b) rimanda sbrigativamente – senza, peraltro, fornire alcun tipo di parametro da seguire – all’apprezzamento del singolo giudice di merito, l’accertamento in ordine alla capacità psicoattiva o drogante della sostanza di volta in volta oggetto dell’indagine preliminare o del procedimento penale;
  4. sostiene un principio (il negare valore alla verifica percentuale del THC) che si pone in plateale contraddizione con la quotidiana realtà forense.

Non si dimentichi, infatti, che ogni perizia tossicologica disposta – nei procedimenti per presunta violazione dell’art. 73 dpr 309/90 – presenta come punto fermo preliminare (e sovente esclusivo) l’accertamento del dato percentuale del principio attivo (da cui inferire conseguenze decisive in sede di giudizio), senza che nessun PM o giudice contesti od eccepisca alcunché riguardo tale metodica.

Evidentemente un motivo logico deve essere a sostegno di tale opzione processuale;

3. il successivo eventuale specifico accertamento ponderale potrebbe risultare pleonastico superfluo e per nulla necessario una volta accertato il dato percentuale, anche se tale specifico metodo di ricerca ha – come si vedrà infra – assunto un progressivo valore pregiato.

Taluno osserva, infatti, che potrebbe essere, infatti, di per sé sufficiente operare un semplice calcolo matematico, consistente nel prendere a parametro il peso lordo di ogni singola confezione (ove si tratti di prodotto ripartito in vari ed autonomi incarti) ed applicare, rispetto allo stesso, la percentuale di THC ravvisata, per ottenere il peso netto di quest’ultimo [5].

Quindi, dare corso alla elementare operazione aritmetica appena proposta, potrebbe rendere del tutto inutile qualsiasi ulteriore approfondimento peritale relativo al profilo ponderale, [6] perché in grado di per sè di fornire il relativo risultato da cui dedurre l’eventuale efficacia drogante (o meno).

1.b LE METODICHE PERITALI IMPOSTATE SUL CRITERIO PERCENTUALE

E’ stato già diffusamente affrontato il tema del controverso utilizzo processuale e dell’approccio marcatamente ideologico al criterio dell’accertamento della psicoattività, delle sostanze derivate dalla coltivazione di canapa, su base percentuale. Ciò che rileva maggiormente, per una più completa comprensione del tema, è la circostanza che la percentuale dello 0,5% (fissata come parametro) risulta frutto di una elaborazione scientifica, tesa ad individuare – in una situazione tutt’altro che semplice sul piano obbiettivo [7] – un  paradigma sufficientemente attendibile in sede processuale, alla luce di numerosi studi succedutisi negli anni.

Va denunziata l’assenza di una espressa previsione nel corpo della legge (il dpr 309/90), che abbia ufficializzato il valore del dato percentuale dello 0,5% (a differenza di quanto previsto nella L. 2.12.2016 n. 242). Tale perdurante carenza legislativa costituisce, tuttora, un gravissimo limite metodologico, che nel tempo ha contribuito non poco a suscitare dubbi, contrasti e contraddizioni [8].

Si è, così, reso necessario – per la risoluzione di un tema pregiudiziale in materia di stupefacenti – affidarsi totalmente e direttamente alla scelta di una diretta accettazione ed applicazione del dato empirico di carattere scientifico. Una volta riconosciuta da parte della comunità scientifica la indubbia valenza del criterio percentuale in parola, esso ha potuto aspirare a riverberare effetti giuridici positivi, si dà potere aspirare ad ottenere un serio avvallo giurisprudenziale [9], (peraltro, però, non sempre sicuro).

Coloro che hanno avversato la validità del paradigma percentuale, infatti, hanno sempre evidenziato ed utilizzato il richiamato argomento dell’assenza di una espressa disposizione di legge, che fissasse un sicuro bastione di discrimine fra lecito ed illecito, citando, a tale fine, quale paragone la strutturazione dell’art. 4 co. 5 e 6 della L. 242/2016 [10].

Si tratta di una deduzione che, pur proponibile, appare, però, piuttosto discutibile. Essa privilegia, infatti, il profilo strettamente lessicale-formale a scapito di quello sostanziale (che in casi del genere dovrebbe, invero, avere sicuramente preponderanza). Emerge, in tal modo, una certa qual presunzione del mondo del diritto, che si è dimostrato, nella specie, del tutto incapace di compiere un importante passo indietro e riconoscere, così, la pregiudizialità del dato scientifico rispetto a quello giuridico.

L’individuazione del limite è stata, così, fissata su base di convenzione scientifica nella misura dell0 0,5% [11]. Al di sotto di tale soglia, la comunità tossicologica ha affermato che il THC non presenta caratteri di psicoattività. È stata, in tale modo, introdotta una vera e propria presunzione di incapacità drogante del prodotto. In proposito, va ricordata, come degna di nota, anche una nota Circolare del Ministero degli Interni del 31 luglio 2018, (per quanto un atto del genere non possa in alcun modo condizionare il profilo normativo di carattere generale), la quale, operando, comunque, come fonte interpretativa, fornisce indicazioni assai rilevanti ad esplicita conferma dell’assunto [12].

Non è, infatti, casuale che il richiamato provvedimento ministeriale citi, infatti, il testo fondamentale della tossicologia forense, LODI, MAROZZI, BERTOLI e MARI, Trattato di Tossicologia forense, Ed. libreria Cortina Milano ove si afferma testualmente “Tenuto conto che la quantità massima di canapa reperita nelle sigarette risulta di gr. 1 si ritiene che la percentuale di THC necessaria perché si possa parlare di canapa stupefacente sia identificabile in quella idonea a garantire un contenuto di THC nella sigaretta di almeno 5 mg. e corrisponda quindi allo 0,5%”.

Ed ancora nella circolare in questione si richiama un altro passaggio del citato trattato di Tossicologia forense dove si legge “per qualificare come stupefacente una cannabis sarà dunque necessario ritrovare i tre cannabinoidi ed una percentuale di THC tale da attribuire al prodotto un certo grado di psicoattività (da circa 0,5 in su)”.

Tale limite minimo è stato riaffermato, anche, da recenti studi della www.fondazioneveronesi.it. Dunque, il canone valutativo in esame appare fondato su robuste evidenze scientifiche, che allo stato non paiono scalfibili. Ciò non di meno, e pur riconoscendo l’indubbia validità dello stesso, è stata avvertita – in prosieguo di tempo – la necessità di individuare una metodica ancor più precisa e che si rivelasse sempre in armonia con taluni arresti giurisprudenziali.

Nel capitolo 2 – che tratterà le attuali posizioni della letteratura tossicologica – ci si soffermerà in maggiormente diffuso sulla compatibilità e sull’alter natività dei singoli parametri che, anche alla luce dell’interpretazione fornita da SSUU (n. 30475/19), sono venuti ad essere utilizzabili.

1.c) LA POSIZIONE DI UNA PARTE DELLA MAGISTRATURA INQUIRENTE E GIUDICANTE

1.c.1) La negazione del doppio binario e della soglia percentuale.

Come detto, allo stato preoccupa un’evidente – seppure ancora minimale, in termini  numerici di pronunzie emesse – involuzione del pensiero giurisprudenziale, che ha posto in discussione l’uso processuale del criterio percentuale, che fissa il bastione della psicoattività (od efficacia drogante) del prodotto nel limite dello 0,5% di THC (Delta9tetraidrocannabinolo).

Questo orientamento appare pedissequamente modulato su di uno specifico segmento della decisione delle SSUU, la celeberrima 30.5.2019 n. 30475/19, nella parte in cui essa afferma testualmente che “….la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., atteso che la tabella II richiama testualmente tali derivati della cannabis, senza effettuare alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto. Ed il fatto che la norma incriminatrice di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., riguardante la circolazione delle sostanze indicate dalla Tabella II, non effettui alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto commercializzato, non risulta incoerente rispetto ai limiti di tollerabilità di cui all’art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento”

Ed ancora laddove osservano i Supremi Giudici che “la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7 della legge del 2016. L’art. 73, cit., incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente, che informa gli artt. 13 e 14 T.U. stup.. Pertanto,  impiegando il lessico corrente, deve rilevarsi che la cessione, la messa in vendita ovvero la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti – diversi da quelli espressamente consentiti dalla legge n. 242 del 2016 – derivati dalla coltivazione della cosiddetta cannabis light, integra gli estremi del reato ex art. 73, T.U. stup.. L’effettuata ricostruzione del quadro normativo di riferimento conduce ad affermare che la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., che pure si caratterizza per il basso contenuto di THC, vale ad integrare il tipo legale individuato dalle norme incriminatrici”.

Or bene, appare non revocabile in dubio la circostanza, che il collocamento della cannabis (intesa quale categoria di pianta in genere e senza il corredo di indicazioni specifiche concernenti livelli di concentrazione del relativo principio attivo) nella tabella II allegata al dpr 309/90 (art. 14), così come inopinatamente disposto dalla L. 79 del 2014 (che convertiva il dl 36/2014) costituisca la stella polare cui si ispira la severa giurisprudenza cui si è fatto riferimento (e soprattutto una parte di quella più complessiva della Corte di legittimità in materia cautelare reale).

Vale, quindi, a dire, che per coloro, i quali assumono la posizione ermeneutica in base alla quale la cannabis sarebbe pianta e (al contempo) sostanza stupefacente tout court, risulta del tutto ininfluente processualmente ogni sorta di indagine sulla idoneità drogante della stessa.

Ad avviso di chi aderisca a questo indirizzo appare, infatti, sufficiente la conformità della pianta e del successivo prodotto al tipo botanico previsto, così come è stato sancito dalla S.C. per affermarne la illiceità e la sussistenza del reato di cui all’art. 73 co. 4 dpr 309/90.

Si tratta di un’impostazione per nulla condivisibile. Essa, infatti, si pone in palese il conflitto con le regole scientifiche vigenti, in base alle quali è ravvisabile una progressione degli eventuali effetti psicoattivi dei derivati della cannabis, legato al superamento di un preciso livello di concentrazione del THC, al di sotto dei quali nessun effetto stupefacente è osservabile.

Appare, pertanto, illogica la presa di posizione della Suprema Corte (anche se nessuno si guarda bene dal rilevarlo, quasi che si tratti di lesa maestà). Essa si lega ad un dato puramente formale (l’inserimento tout court della cannabis in tab. II) e non tiene in debito conto l’ulteriore contraddizione, propria di un legislatore concettualmente sciatto, che emerge con la collocazione del principio attivo (il Delta9tetraidrocannabinolo, ma anche il Delta9tetrairdocannabinolo) a propria volta nella tab. I (che classifica le cd. droghe pesanti).

Come, peraltro, più volte notato, l’intransigente atteggiamento interpretativo, sin qui esaminato, oltre che illogico in sé, appare paradossalmente ed incomprensibilmente conflittuale con la necessità procedimentale (avvertita da parte di Pm e giudici) di effettuare l’accertamento dell’effettiva capacità drogante del compendio di volta in volta sequestrato. Si tratta di una verifica che – come anticipato – si impernia soprattutto sul controllo del livello percentuale di THC rinvenibile.

Siamo, quindi, dinanzi ad un evidente cortocircuito procedimentale, dove l’applicazione concreta (da parte dei giudici di merito) di specifici canoni ermeneutici disattende i principi generali (sanciti dalla Cassazione). A corollario di quanto sin qui esposto, si osserva che chi propugna la rigida posizione di chiusura teorica dettata dalle SSUU nella sent. 30475/19, non considera, però, che la stessa decisione delega al giudice di merito il dovere di stabilire se la sostanza derivata dalla coltivazione di canapa Sativa L sia idonea a produrre effetti droganti. Questa delega (invero assai discutibile, in quanto legittima il proliferare di metodiche accertative e di possibili decisioni fondate su parametri del tutto diversi tra loro, quando non addirittura contrastanti, una vera Babele giudiziaria) smentisce, pertanto, il principio generale della ravvisata psicoattività della cannabis.

1.c.2) Le ragioni a confutazione della tesi negazionista.

In pari modo, appare importante anche un’altra osservazione.

Anche la deroga che la S.C. introduce (in calce alla sentenza 30475/19) rispetto al divieto generale di commercializzazione di infiorescenze, per scopi differenti da quelli ritenuti tassativamente indicati dall’art. 2 L. 242/2016 [13], consistente nell’assenza di idoneità drogante dei prodotti posti in vendita, costituisce elemento di inspiegabile contraddizione. Se, infatti, la cannabis è da considerare in toto sostanza stupefacente, a cagione della sua collocazione nella tab. II del dpr 309/90 e senza che la legge stabilisca scaglioni o limiti di esenzione, non pare logica, ammissibile, né tanto meno accettabile alcuna forma di deroga.

Qualunque condotta  – differente dal consumo, dall’importazione o dall’esportazione – dovrebbe, pertanto, in coerenza logica con il principio generale formare oggetto di procedibilità penale e, se del caso, di sanzione. In questo modo piuttosto lapidario (e giuridicamente grossolano) verrebbe disapplicato inammissibilmente, l’istituto dell’offensività della condotta, categoria speciale dell’antigiuridicità, che presuppone una verifica dell’effettiva illiceità concreta della stessa.

Vale a dire che, quindi, seguendo l’indicazione rigoristica formulata dalle SSUU, e muovendo dal principio per cui la cannabis è ritenuto ex se stupefacente, il cittadino verrebbe processato (e molto probabilmente condannato), senza che il giudice possa – o voglia – tenere in debito conto l’effettiva concreta lesione del bene giuridico tutelato relativa al caso di specie [14], quale conseguenza di una condotta contra ius, che integra il reato di cui all’art. 73 co. 1 e 4 dpr 309/90.

La realtà è, però, ben differente e non può non fondarsi sul dato scientifico, unanimemente acclarato ed accettato in base a numerosissimi studi di tossicologi di esperienza mondiale.

Al di sotto di una certa percentuale (0,5%) o di uno specifico quantitativo ponderale di THC effettivamente assunto (mg. 5), la cannabis non produce effetti stupefacenti [15].

Ed allora è necessario avere l‘onestà intellettuale di ammettere che le SSUU (con la sent. 30475/19) hanno elaborato un esempio di sentenza  non approfondita,  contraddittoria, priva di fondamento scientifico e – soprattutto – di collegamento con la realtà tossicologica vigente. Si tratta di un provvedimento, che pare figlio della preoccupazione di offrire al mondo giurisdizionale apparenti strumenti giuridici di sanzione rispetto a comportamenti concernenti la circolazione commerciale dei derivati della canapa (seppure in forme assolutamente legali), che paiono valutati dai Supremi Giudici, con un taglio più orientato sul piano etico che su quello del diritto.

Il negativo condizionamento che questo arresto giurisprudenziale sta producendo è notevole. Nella quotidianità procedimentale, non vi è, in effetti, Pm o Giudice che non menzioni (o riporti anche solennemente) il testo della pronunzia in richiamo, dimostrando di avere recepito, senza, però, dare corso ad un sufficiente approfondimento (sia di natura scientifica, che di natura fattuale, che di natura giuridica), indicazioni che si palesano – come si è cercato di dimostrare sinora – assai discutibili.

Vi è, però, anche un altro tema che incide sulla metodica relativa alla valutazione relativa alla cd. capacità drogante. La giurisprudenza di legittimità da tempo ha abbracciato il criterio della valutazione del peso lordo complessivo del compendio sequestrato e, soprattutto, del peso totale del principio attivo in esso contenuto.

Tale orientamento non tiene nella doverosa attenzione la circostanza che –  in materia di canapa light – i parametri valutativi devono essere pienamente differenti ed autonomi rispetto a quelli che usualmente si richiamano e si applicano in tema di violazione specifica dell’art. 73 co. 4 dpr 309/90, in presenza di cannabis ad alto contenuto di THC.

La questione di sistema è assolutamente dirimente. A differenza della canapa cd. illegale (per la quale l’eventuale confezionamento della sostanza in varie porzioni o dosi può apparire indice di una attività illecita di spaccio)[16] la commercializzazione dei derivati della canapa light viene, invece e naturalmente, proprio effettuata attraverso la preliminare divisione dell’intero originale in singole confezioni di grammature minime (1 o 2 o 5 grammi di peso lordo).

Vale a dire che – sull’esempio del commercio del tabacco o dell’alcol – sono le caratteristiche di ogni singola confezione o bottiglia (nello specifico la percentuale ed il peso netto del THC) che devono essere prese a parametro, per potere formulare una prognosi di psicoattività del prodotto. È, quindi, improprio giuridicamente (nonchè scientificamente errato) volere considerare la somma del peso sia lordo, che netto, relativo a Esostanza che si presenti, sul piano commerciale, suddivisa e frazionata in bustine od altri piccoli involucri, autonomamente tra loro venduti.

In buona sostanza, in presenza – ad esempio – di un prodotto che si componga di numerosi reperti (i quali ne formino l’insieme) il giudizio che deve essere procedimentalmente reso, deve incentrarsi su ogni reperto. È di tutta evidenza che l’acquisto e la eventuale successiva assunzione della sostanza contenuta nella confezione involge la confezione singola e non già l’insieme della totalità delle stesse.

Se, quindi, una bustina di canapa light contiene 1 grammo di sostanza lorda, il quale a propria volta contiene un quantitativo di THC pari a 5 mg. [17], saranno questi i dati cui si deve fare riferimento e non già la somma matematica del peso del principio attivo di tutti reperti che compongono l’intero gruppo. [18]

Sarebbe, infatti, illogico ed innaturale ritenere una sostanza come psicoattiva, adottando un canone ermeneutico (quello della somma del peso delle singole confezioni) che, invero, altro non è che una  vera e propria fictio, disancorata dalla realtà.

Ad ulteriore esempio.

Si deve considerare – come si esporrà in seguito – che il THC contenuto originariamente nel singolo reperto, (5 mg.) subisce un degrado in corso di assunzione per inalazione, che determina l’entrata in circolo nel sistema metabolico dell’assuntore di una quantità minima di principio attivo (circa 1,5 mg.) di per sé assolutamente inefficace a produrre effetti psicoattivi. Ciò posto, appare evidente che per giungere a tale forma di alterazione, il consumatore dovrebbe fumare una sigaretta da circa 5 grammi lordi, oppure in immediata successione 5 sigarette da 1 grammo ciascuna.

Si tratta di due situazioni tanto illogiche, quanto impraticabili, ma che, purtroppo, si potrebbero accreditare come perfettamente coerenti con l’impostazione che si va criticando.

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  1. L’ACCERTAMENTO E LA DECLARATORIA DEL CARATTERE PSICOATTIVO DELLA CANAPA E DEI SUOI DERIVATI AI FINI DI RILEVANZA PENALE.

LO STATO DELL’ARTE SOTTO IL PROFILO

SCIENTIFICO E, IN SPECIAL MODO, TOSSICOLOGICO.

2.a  LA POSIZIONE ATTUALE DELLA LETTERATURA TOSSICOLOGICA

Come è stato esposto nel capitolo precedente, dal punto di vista tossicologico sulla soglia percentuale di THC dello 0,5% – al di sotto della quale non è ravvisabile alcuna forma di idoneità drogante della sostanza – si è formata una chiara ed univoca convergenza scientifica. Correlativamente si è stabilito che la quantità di THC idonea suscitare effettivi  psicoattivi deve essere superiore a 5 mg.

Ulteriormente la scienza tossicologica ha precisato che la quantità di 5 mg. non deve riferirsi al peso originario del THC rispetto ad una confezione da 1 gr. Lordo di canapa, quanto piuttosto a quello residuo che viene metabolizzato dall’organismo del consumatore. Questo risultato – come già spiegato – permette di sostenere che il quantitativo di principio attivo, che, originariamente, viene contenuto nella singola confezione di canapa light, può essere pari a 25 mg., atteso il progressivo degrado dello stesso (V. nota 17).

Appare evidente che questo approccio risolutivo muta radicalmente l’orizzonte dei parametri da utilizzare, favorendo un’interpretazione particolare sia del criterio percentuale oltre il quale, per unanime convenzione tossicologica, si possono ravvisare effetti droganti (0,5%), sia del criterio ponderale ancorato alla misura di 5 mg.

Si tratta, pertanto, di considerare la cd. biodisponibilità del THC, quale parametro principale per pervenire ad un preliminare giudizio di psicoattività o di non psicoattività della sostanza specifica e introdurlo, poi, nel contesto delibativo processuale, al fine della conclusiva valutazione penale.

La letteratura tossicologica sul punto è copiosa [19]. Il punto cruciale è quello della individuazione della percentuale di THC, inalato attraverso il fumo, che venga trasferita al circolo sanguigno (definita “biodisponibilità”). Adams e Martin [20] hanno ipotizzato che il 10-25% del Delta9-THC contenuto nella sigaretta entri nel circolo sanguigno.

Sull’effettiva percentuale di biodisponibilità – pur nella comune convinzione di un degrado del quantitativo originario – non vi è assoluta concordanza, tanto che Dussy ed altri [21] quantifica nella misura che va dal 24 al 30% il quantum residuo di principio attivo in concreto, poi, assunto attraverso la inalazione.

Lindgren e Ohlsson [22] hanno collocato il livello di biodisponibilità sistemica in un range che va dal 16 al 23% per i consumatori pesanti (coloro continuativi) e dal 7 al 10% per quelli leggeri (sporadici o casuali), confermando sostanzialmente e successivamente [23] tali percentuali.

Ancor più schematica e lineare appare l’indicazione di Chericoni, che deduce che concentrazioni da 0,5-0.6% re3nderebbero disponibili per l’effettivo assorbimento da 1,25 a 1,5 mg. di THC, quantità invero piuttosto basse per ottenere un reale effetto psicoattivo.

L’osservazione che precede si fonda sugli studi di Lineke, Zuurman ed altri [24] i quali riferiscono che dopo che un soggetto ha fumato “circa il 50% del contenuto del THC di una sigaretta viene immesso nel fumo ed un altro 50% del fumo inalato viene nuovamente espirato. ….fumare una sigaretta di cannabis da 10 mg provoca una perdita del 50% a causa del riscaldamento che lascia subito 5 mg. . Successivamente metà dei 5 mg. Inalati viene nuovamente esalata. Infine 2,5 mg. o il 25% della sigaretta da 10 mg. Viene reso disponibile per l’assorbimento nella circolazione sistemica”.

In buona sostanza, quindi, i capisaldi interpretativi, che, dalle considerazioni sinora sviluppate, derivano, sono le seguenti.

1) Il canone ermeneutico fondamentale diverrebbe, così, quello della dose media singola (25 mg.) posto che la progressiva diminuzione, per consunzione, del peso effettivo del THC che il consumatore effettivamente assume. Il dato di riferimento, in questo modo, sarebbe non assoluto, ma, comunque, pur apparendo una sorte di dato convenzionale, sarebbe munito di un livello di grandissima approssimazione, sulla base dei calcoli sopra esposti.

Individuare il discrimine fra psicoattività e neutralità (in armonia con la indicazione delle SSUU 30475/19) nella misura di 5 mg di Delta9tetraidrocannabinolo (quale quantitativo residuale degli originari 25 mg.), significa, pertanto, spostare necessariamente, a fini penali, l’attenzione esclusivamente sul quantum di principio attivo che effettivamente viene ingerito e posto in circolo nell’organismo del consumatore.

La conseguenza del tutto rilevante e certamente rivoluzionaria – sul piano probatorio – è che il parametro ponderale base da utilizzare verrebbe a coincidere con la dose media singola che è pari a 25 mg. (intesa quale quantitativo iniziale suscettivo di progressiva riduzione) e dovrebbe essere integrato dall’indicazione che sono 5 i milligrammi di THC assumibili a seguito di eventuale consumo per inalazione. Si supererebbero, in questo modo incertezze, contraddizioni ed ipocrisie interpretative.

2) La percentuale dello 0,5%, relativamente al THC, verrebbe, così, a perdere gran parte del proprio valore probatorio. Essa, infatti, potrebbe identificare solamente la porzione residua di Delta9-THC che venga assunta direttamente dall’organismo, al netto delle progressive degradazioni chimiche, che avvengono nel corso della inalazione da parte del soggetto consumatore.

3) È necessario ripensare – anche con onestà intellettuale e minore prevenzione soprattutto da parte di ff.oo. e magistrati – alle procedure propedeutiche all’eventuale accertamento delle caratteristiche organolettiche dei prodotti, di volta in volta, oggetto di indagine. Da una parte, commercianti e coltivatori (ciascuno per la propria parte, ma, soprattutto, in funzione della commercializzazione di prodotti derivati dalla canapa, secondo destinazioni diverse da quelle indicate nell’art. 2 L. 242/2016 e in deroga al divieto che fa ricadere tale attività nel campo tracciato dal dpr 309/90) che dovrebbero munirsi di certificazioni rigorosamente idonee, per nulla generiche ed affatto risalenti, come , invece, sovente avviene.

Il ricorso a questo tipo di documento scientifico – certamente fondamentale e munito di validità sino a querela di falso – permettere di prevenire o, comunque, ridurre al minimo le pretese di di verifiche, per il tramite dell’uso dello strumento delle attività di indagine penale (che si tramutano in vere e proprie ingerenze) da parte delle forze dell’ordine, in questo sostenute dalla posizione di numerose Procure.

È evidente, come si dirà appresso, che, dinanzi ad iniziative di indagine penale – che nella stragrande maggioranza dei casi si rivelano infondate, per le copiose sentenze di assoluzione e per i numerosi decreti di archiviazione ad oggi intervenuti – essere dotati  dello strumento della certificazione scientifica aiuta, ma può non costituire circostanza dirimente. È, infatti, necessario che gli inquirenti e la magistratura nel proprio complesso, mutino totalmente mentalità ed approccio, oltre che approfondiscano seriamente il tema, applicando il diritto al senso logico.

  1. A) In primo luogo, qualsiasi accertamento non deve necessariamente concludersi con un sequestro probatorio (e più raramente preventivo), laddove la persona (fisica o giuridica) che produca documenti obbiettivamente idonei a dimostrare la non psicoattività delle sostanze oggetto di verifica.

Gli investigatori devono tenere conto delle produzioni difensive che devono essere valutate e , se del caso, ritenute dirimenti.

B) In questa situazione, ruolo importante viene rivestito dalle Procure, che devono fornire linee di intervento preciso e chiaro alle forze dell’ordine.

B.1) Deve essere precisato e riconosciuto lo scarso valore probatorio del narco test [25], ai fini che usualmente sono perseguiti dal procedimento penale (che non può accontentarsi di una generica reazione cromatica, attestante la sola indeterminata presenza di tetraidrocannabinolo).
Sulla base del narco test non può e non deve essere, quindi, giustificata alcuna misura cautelare reale (e neppure convalidato ad es. un sequestro probatorio di un intero compendio di merce), a maggiore ragione, se in presenza di documenti certificativi provenienti dalla parte privata [26].

B.2) Non è, quindi, ammissibile – allo scopo di procedere a sequestro probatorio e di convalidare tale atto – sostenere la necessità di accertare la composizione del prodotto rinvenuto, quando, come già detto, si sia in presenza di allegazione di parte, la quale per essere disattesa – provenendo per lo più da laboratori di enti universitari riconosciuti – dovrebbero venire accusati di falso.
Al più, può essere ragionevole procedere al prelievo di un numero significativo di campioni del prodotto, onde operare una rapida verifica analitica tossicologica (con un termine perentorio di una settimana, lasso che costituisce tempo più che sufficiente), lasciando la merce nella disponibilità della persona sottoposta al controllo con l’imposizione di non venderla per il tempo strettamente necessario all’accertamento.

C) È, peraltro, necessario operare anche un’altra ulteriore osservazione. Attualmente la giurisprudenza relativa ai procedimenti cautelari reali segue un principio (certamente assai opinabile), in base al quale, per la legittimità del sequestro  non è necessaria la sussistenza di indizi di reità, quanto piuttosto l’astratta sussunzione del fatto nell’ipotesi di reato paventata e temporaneamente addebitata. Si tratta – come detto – di un principio che comprime in modo, a mio modo di vedere, eccessivo (ai limiti dell’abnormità) il diritto di difesa, espandendo correlativamente, in modo, altrettanto, discutibile i poteri coercitivi dell’accusa.
Vale a dire che la sola prospettazione ipotetica della violazione dell’art 73 co. 4° dpr 309/90, in relazione alla detenzione e commercializzazione di confezioni di canapa light, rendere ragione a sostegno di pesanti provvedimenti cautelari, che spesso coinvolgono  quantitativi rilevanti di merci. È tempo, a parere di chi scrive, che questo approccio venga superato.
Non pare, infatti, correttamente sostenere in via astratta un’accusa, quale quella sopra ricordata, che presenti un carattere di provvisoria fondatezza, permettendo all’accusa di dare corso, pur in presenza di un quadro indiziario estremamente vago, generico e sovente contraddetto da elementi di prova forniti dalla parte.
Come già evidenziato, le negative conseguenze sono palesi e appaiono indicatrici del formarsi di un contraddittorio pericolosamente ed ingiustamente squilibrato in favore della pubblica accusa.
Dunque, in simili situazioni è necessario superare il cd. fumus commissi delicti, nella sua accezione puramente formale, per prendere, invece, a paradigma, elementi di maggiore concretezza, se non addirittura utilizzare come criterio lo stesso (gravi indizi di colpevolezza) che viene evocato nell’art. 273 c.p.p. .

Non si deve, infatti, ritenere che le misure cautelari reali debbano essere considerate come minus rispetto a quelle personali, attesa la loro profonda capacità di incidere nel tessuto connettivo del singolo cittadino, rivolgendosi al suo patrimonio,  od a beni che egli utilizza professionalmente. Se il Pm od il Giudice utilizzano la dizione “corpo di reato o cosa pertinente al reato”, significa che essi muovono da una piattaforma di concreta sussistenza di elementi di accusa.

Invece, quasi sempre queste definizioni servono ad identificare in maniera strumentale beni, che devono essere sottoposti ad un’attività meramente ricognitiva e non già di conferma o riscontro di elementi indiziari di accusa. Vale a dire che i sequestri probatori, che dovrebbero presupporre una notizia di reato (cioè dovrebbero essere la ricerca di un riscontro ad elementi indiziari già raccolti e di per sé idonei ad una notizia di reato) invero, si rivelano funzionali ad un’attività preliminare, esperita la quale effettivamente si potrebbe dare corso ad una vera e propria indagine [27].

Dunque, è indefettibile che la giurisprudenza muti radicalmente orientamento, in quanto – allo stato – i PM possono contare su di un’interpretazione, in punto di diritto,  che legittima apparentemente (e discutibilmente) ogni iniziativa che venga svolta anche solo sulla scorta di un mero e vago sospetto, che prende il posto del vero dato indiziario o probatorio. Questo mutamento chiama, quindi, in causa, non solo in prima battuta la magistratura inquirente, ma coinvolge – senza sconti – anche quella decidente (in special modo Tribunale del Riesame, Gip e la stessa corte di Cassazione), che non può continuare ad essere stampella della prima.

Ed ulteriore ragione che milita a sostegno di quanto si va sostenendo riposa nella circostanza che il 98% dei procedimenti coinvolgenti coltivatori o commercianti si chiude con il proscioglimento (rectius archiviazione) o l’assoluzione degli indagati/imputati, in quanto le analisi tossicologiche così svolte (ed effettuate con tempistiche non certo rapide, mentre la merce permane in sequestro) finiscono per confermare la originaria protesta di innocenza degli inquisiti [28].

Deriva, pertanto, la conclusione che ci troviamo dinanzi ad un corto circuito procedimentale, perché tutt’altro che episodicamente (anzi sistematicamente) l’attività investigativa tossicologica mostra la propria superfluità, perché essa conferma nella sostanza la documentata protesta di innocenza dell’indagato. E mentre la merce rimane per mesi (molti) in vinculis, i giudici cautelari applicando i criticati principi, invero, astratti, affermando la legittimità di provvedimenti cautelari su merci, la cui commercializzazione, invece, è assolutamente illecita e emettendo provvedimenti che verranno contraddetti da assoluzioni di merito.

D) Un altro criterio giurisprudenziale deve, poi, essere rivisto e superato. Mi riferisco al principio in base al quale, una parte (assai significativa ahimè) della giurisprudenza di rito e merito sostiene che la condotta di detenzione di prodotti derivati dalla coltivazione di canapa vada considerata come un unicum senza valutare, invece, in concreto la frazionabilità del reperto complessivo, sulla base della commerciabilità di singole confezioni.
Tale orientamento applica alla canapa light i principi utilizzati in relazione a sostanze stupefacenti, sull’erroneo, quanto apodittico presupposto che la canapa, con tenore di principio attivo basso od addirittura assente, ricada nella categoria delle sostanze psicoattive.
Dunque, a prescindere dall’errore genetico, consistente nell’applicare una normativa che disciplina una specifica materia (gli stupefacenti) ad un segmento che è estraneo a tale materia, posto che si tratta di sostanza priva del carattere di psicoattività proprio delle droghe, emerge l’illogicità del criterio in parola.

La S.C. (e tutti coloro che seguono tale indirizzo pedissequamente), infatti, non tengono in debito conto le modalità della vendita dei prodotti cd. di canapa light, arroccandosi in valutazioni astratte del tutto svincolate dalla quotidianità e, soprattutto, dalla realtà.

Come recentemente ha scritto la Procura di Milano [29], avanzando istanza di archiviazione della posizione di un commerciante di prodotti a base di canapa sativa L, va considerata pure “la circostanza che i prodotti in oggetto venivano suddivisi in buste, poiché la vendita avveniva in forma frazionata e, pertanto, al fine di individuare l’esatta dose oggetto di vendita al consumatore, il dato quantitativo complessivo deve essere suddiviso per il numero di buste rinvenute”.

 Si tratta di un’osservazione tanto lapalissiana, quanto elementare, ma che pur parendo non fare breccia nelle radicate convinzioni dei giudici di legittimità, deve prendere piede. La persistente (e spesso illogica) resistenza ed impermeabilità della Corte Suprema rispetto ad interpretazioni innovative, fondate sul diritto vivente e, soprattutto, sulla necessità di colmare situazioni di drammatica discrasia fra sensibilità quotidiana e norma, deve essere superata giuridicamente in modo deciso. Valutare la sostanza come frazionata, cioè nella sua situazione effettiva di commercializzazione in favore degli acquirenti, non può rimanere un tabù e deve divenire il criterio fondamentale.

D’altronde – ad esempio – quando si prende ad esame una cassa di bottiglie di vino, da porre in vendita, non si opera certo riferimento all’insieme delle stesse, sommando il  quantitativo di alcool contenuto in ciascuna, ma, come ragionevole ed ovvio, ci si sofferma su ogni singola bottiglia e sul quantum percentuale e ponderale del principio attivo contenuto.

E) Da ultimo ritengo vadano riviste le metodiche di analisi da parte di PM e di Giudici, laddove si dovesse continuare a pervenire allo svolgimento della verifica tossicologica di campioni di sostanze sequestrate.

E.1) Il criterio percentuale – che reputo comunque debba continuare ad essere rilevato –  dovrebbe, comunque, essere il risultato calibrato afferente ad ogni singola dose. È evidente che per potere ottenere risultati soddisfacenti sia necessario sottoporre ad analisi un quantitativo significativo di confezioni appartenenti ad ogni specifico prodotto (è, infatti, usuale che il negoziante detenga varie tipologie di prodotti con caratteristiche differenti fra loro). Una ipotesi di sistema potrebbe essere quella di utilizzare, per analogia, lo stesso protocollo adottato dall’ONU (nel 1987 e ribadito nel 2009) per le consulenze tossicologiche relative alla coltivazione di piante [30]. Il problema anche in quel caso era quello di individuare un criterio attendibile per individuare un campione correttamente e sufficientemente significativo, sul quale modulare l’analisi chimica.
Come riportato alla nota 24, si è addivenuti ad un criterio piuttosto razionale, il quale ha dato buona prova di sé ed è stato seguito in modo soddisfacente, nell’ambito di consulenze svolte in sede giurisdizionale.

E.2) Anche l’accertamento del peso di THC contenuto, deve essere – ad avviso di chi scrive – seguendo il criterio della singola confezione che appartenga ad un gruppo omogeneo. In questo caso l’analisi appare ancor più importante e decisiva, solo che si pensi che – alla luce delle considerazioni svolte al paragrafo 2 – il risultato che si otterrà fornirà un paradigma essenziale per il giudizio di psicoattività (o meno) del prodotto. In più, si deve considerare la circostanza che questo tipo di verifica si pone in perfetta simbiosi con l’indicazione di SSUU (30475/19) che ha stabilito che il giudice di merito debba accertare l’efficacia drogante della sostanza, prescindendo dal tasso percentuale rilevato.

L’esito di una siffatta analisi permette, pertanto, anche di addivenire ad un giudizio certo ed inequivoco, non soggetto ad oscillazioni o considerazioni di carattere soggettivo o discrezionale.

In tutta evidenza, il parametro da adottare per il calcolo, è, quindi, il medesimo che si è indicato, in precedenza, per l’analisi a fini di accertamento della percentuale effettiva, in quanto il comune principio del frazionamento del prodotto in tante confezioni impone di esaminare un significativo numero di campioni (per ricavare il dato specifico relativo alla singola confezione che sarà commercializzata) e non già l’intero.

Rimini, lì 21 ottobre 2021

Avv. Carlo Alberto Zaina

[1]    Vale a dire derivata dalla messa a dimora di sementi comprese nelle varietà catalogate ai sensi della Dir. UE 53/2002, che2016. prevede un range  pari a 0,2%, con estensione di tolleranza sino allo 0.6%. Termini entrambi fissati ex lege 242/2016.

[2]    Limite percentuale dello 0,5%, fissato giurisprudenzialmente recependo indicazioni tossicologiche.

[3]Fermi i citati limiti in relazione al coltivatore, si deve evidenziare che, per quanto concerne l’attività del commerciante, alla luce della pronuncia SSUU 30475/19, non parrebbe sufficiente una quantificazione percentuale in linea con il limite giurisprudenziale e tossicologico di THC fissato nella misura dell0 0,5. L’effettività drogante dovrebbe essere, infatti, desunta dal giudice in relazione al peso effettivo del principio attivo contenuto nello specifico reperto, fermo indicativamente l’accoglimento del parametro di concentrazione di mg. 5 di THC per grammo lordo di confezione. Su questo tema ci si soffermerà infra più dettagliatamente.

[4]    L’analisi peritale è – nella stragrande maggioranza dei casi – effettuata ai sensi dell’art. 359 c.p.p., vale a dire quale atto che, seppur ripetibile, appare urgente e che, soprattutto, non contempla la partecipazione della difesa in contraddittorio (con tutte le conseguenze del caso anche sotto il profilo della conoscenza degli esiti). Talora, molto più raramente, l’accertamento tossicologico può essere disposto dal PM nelle forme dell’art. 360 c.p.p. – di natura irripetibile – con l’instaurazione di un minimo contraddittorio (si tenga sempre conto del fatto che il perito non è terzo, bensì rimane un consulente del PM), ferma, però, la riserva della difesa di chiedere l’adozione dell’incidente probatorio.

[5] Ad esempio, a fronte di una confezione da gr. 1 lordo di cannabis, la percentuale di THC dello 0,5% determina la presenza di mg. 5 (che viene – come si vedrà – considerato il quantitativo solo oltre il quale la sostanza presenta idoneità drogante o psicoattiva).

[6] Il giudice (ed anche il PM per analogia) dovrebbe essere ancora per definizione il peritus peritorum, oppure qualcosa è mutato?

[7] Da più parti, infatti, si è evidenziato che la valutazione tossicologica della capacità drogante di una sostanza dovrebbe essere improntata ad un profilo maggiormente soggettivo. Essa dovrebbe, ad avviso di tlauni, tenere in debito conto anche le caratteristiche fisiche del potenziale consumatore, in quanto esse determinerebbero differenti capacità di assorbimento del prodotto

[8] Uno dei tanti esempi di pusillanimità (se non addirittura di malafede) del legislatore italiano.

[9] Sussistevano, infatti, immotivate oscillazioni, nonostante la risalenza del principio fatto proprio sin dal 1989 da Cass. Sez. IV. Queste oscillazioni ora sono divenute turbolenze dopo la pronunzia di SSUU 30475/19 che solo all’apparenza ha chiarito il tema ed anzi ha complicato non poco l’opera ed il lavoro dell’esegeta.

[10]    Art. 4 L. 242/2016 .

  1. Qualora all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità’ e’ posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge.
  2. Gli esami per il controllo del contenuto di THC delle coltivazioni devono sempre riferirsi a medie tra campioni di piante, prelevati, conservati, preparati e analizzati secondo il metodo prescritto dalla vigente normativa dell’Unione europea e nazionale di recepimento.

[11]      Non mancano, comunque, autori che fissano nell’1% il limite minimo drogante.

[12] La circostanza appare spiccatamente significativa sol che si pensi che il titolare dell’epoca del Ministero dell’Interno non pare personaggio politico che abbia mai manifestato tendenze antiproibizioniste, anzi ergendosi a paladino delle ragioni proibizioniste.

[13]  Il principio generale sancito da SSUU colloca, infatti, il commercio di infiorescenze nel perimetro di applicazione del dpr 309/90.

[14]  Appare indiscutibile che si tratta di uno dei principi cardine su cui si sviluppa l’intero sistema del diritto penale ed è contemplato negli art. 25 e 27 Cost..  Il bene giuridico, pertanto, può presentare tanto profili naturalistici quanto caratteristiche immateriali, come ad esempio, i diritti fondamentali della persona che si assumono quali valori giuridici assoluti. L’interesse giuridico identifica il rapporto esistente tra un soggetto e il bene meritevole di tutela, ai fini del soddisfacimento di un’esigenza di carattere materiale o immateriale.

[15] Parlare di quantitativo di THC da assumere nella misura finale di mg. 5, sposta, però, i termini del problema in relazione al criterio della percentuale. Come si vedrà, una presenza originaria nella confezione commerciale di Delta9tetraidrocannabinolo nella misura di mg. 25 (la quale si riduce come si avrà modo di spiegare infra al quantitativo finale di mg. 5) determinerebbe teoricamente una percentuale originaria di principio attivo pari al 2,5%. Dunque, per intanto, è consigliabile tenere ferma la temporanea simbiosi fra 0,5% e 5 mg.

[16]  Cfr. testo art. 73 e 75 co. bis dpr 309/90

[17]  Non si dimentichi che in relazione al parametro del peso della dose di THC necessaria per produrre effetti droganti, la comunità scientifica ha variamente collocato lo stesso fra i 5 ed i 20 mg.  Invero, non vi è unanimità fra gli studiosi di tossicologia forense, in quanto svariate sono le posizioni assunte, le quali coprono tutto l’arco che va dal minimo di mg. 5 (come propone la Circolare del Ministero dell’interno) al massimo di mg. 25, che è pari alla dose media singola prevista dalle tabelle allegate al dpr 309/90. Nonostante una parte della giurisprudenza abbia escluso che la dose media singola (mg. 25) si possa porre come concreto discrimine fra lecito ed illecito, appare evidente che tale quantitativo possa essere preso a paradigma in virtù del principio della bio disponibilità di cui si parlerà infra. In plurime perizie tossicologiche, lo scrivente ha potuto riscontrare che il consulente di ufficio o della Procura ha individuato la dose idonea a produrre efficacia drogante in un range che si aggira attorno ai 10/15 mg di THC.

[18]  In proposito si richiama la pronunzia della Corte di Cassazione Sez. 6 n. 12812/20, 15.12.20, che sancisce come l’accertamento riguardante l’efficacia drogante non va svolto attraverso un campione globale o rappresentativo, ma va compiuto “verificando ogni singola confezione”.

[19]  Cfr. ex plurimis Dussy, Hamberg, Lungbuhl ed altri Isolation of Delta9-THC A-A from hemp and analitycal aspect concerning the determination of Delta9-THC in cannabis products (2005).

[20]  Cannabis : pharmacology and toxicology in animals and humans. Addiction (England – 1996) 91 S. 1585 -1614

[21]  Dussy op.cit.

[22]  Effetti clinici e livelli plasmatici del delta9-tetraidrocannabinolo nei consumatori pesanti e leggeri di cannabis (1981)

[23]    Cinetica della dose singola del delta-1tetrairdocannabinolo (dove il minimo per gli utenti leggeri viene abbassato dal 7 all’1%, rimanendo, peraltro, invariati tutti gli altri parametri)

[24]  Biomarkers for the effects of cannabis and THC in heal volunteers BJCP (2008) 1365-2125

[25]  Nonostante l’avviso della SC di Cassazione, che in una sorprendente sentenza ha sostenuto la valenza probatoria del narcotest, non considerando che la funzione di tale verifica è puramente e genericamente ricognitiva. Essa è sufficiente a testare la presenza di THC (cannabinoide presente organicamente nella canapa), ma gravemente insufficiente a dimostrare se il principio attivo abbia reale efficacia drogante.

[26]  Mi rendo conto che il ragionamento introduce pericolosamente una possibile inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del potenziale indagato l’obbligo di dimostrare la liceità dell’oggetto della propria condotta. Ritengo, però, che stabilendo una assoluta valenza probatoria delle produzioni documentali di certificati di analisi, di sementi utilizzate, di documenti fiscali strettamente conferenti con la merce oggetto di controllo, il timore di un’astrazione processuale venga meno e quello cui faccio riferimenti si venga a rivelare, invero, solo un utile onere di allegazione.

[27]  Cass. Sez. 6, Totaro, ha riaffermato la necessità che il fumus per un’attività di perquisizione e sequestro verso un’attività commerciale, derivi dal possesso, da parte degli inquirenti, di elementi pregressi, di prova o indizi (quale ad es. merce precedente venduta ed analizzata), negando che il cd. fumus sia ravvisabile in assenza di siffatti presupposti.

[28]  Per vero, in taluni (rari) casi i giudici pur assolvendo hanno disposto la confisca e distruzione della merce sequestrata. Ciò è avvenuto in forza o di una valutazione di insussistenza dell’elemento psicologico del reato in capo all’indagato (caso di superamento dei limiti relativi al THC), oppure, più raramente, per erronea e contraddittoria applicazione dell’art. 87 dpr 309/90, che riguarda gli stupefacenti non le sostanze che tali non sono.

[29]  Richiesta di archiviazione in proc. contro A.V.

[30]  Il protocollo prevede che qualora si tratta di 10 piante tutte devono essere esaminate, se si tratta di un numero  di piante tra 10 e 100, si prende ad esame il 15% dei reperti, sopra le 100 si prende un numero pari alla radice quadrata del numero effettivo di esemplari.



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