Criptovalute: il mito di una finanza alternativa
Da rivoluzionarie a trappole per polli da spennare fino a sanguisughe energetiche. Una cruda analisi Bitcoin & Co. tra disillusione e un mare inimmaginabile di potenzialità a 15 anni dal loro esordio
Quando fece la sua comparsa, con la sua attitudine rivoluzionaria e libertaria, l’accoglienza fu entusiastica. Un sistema per scambiare denaro senza intermediazione rispetto a un’autorità centrale o una banca. Fin da subito amatissima da chi per ovvie ragioni era abituato ad agire nell’ombra, la Decentralized finance, è un ecosistema nato a seguito della crisi finanziaria deflagrata col crollo di Lehman Brothers. Sulla scia del disastro, un manipolo di anarco-libertari, con spiccate attitudini informatiche, ha costruito una finanza alternativa, slegata dalle norme statali e valute emesse a volontà dalle banche centrali. Popolano la Defi diverse specie: le Criptovalute (Crv), i mercati dove queste sono scambiate (Crx) e le Stablecoin (Stc), nelle quali si depositano le Crv, come in banca. Contabilizza le transazioni la Blockchain (Blc), un registro digitale, non violabile grazie alla crittografia, che garantisce le due parti di una transazione: a chi compra assicura il possesso del bene da parte del venditore, a chi vende il pagamento.
Ad oggi, però, la Blc è stata più volte perforata nonostante la crittografia, un Crx è fallito e le Stablecoin sono tutt’altro che stabili. A 15 anni dal suo esordio, che bilancio è possibile?
Per la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, è un mercato pericoloso che dovrebbe essere regolato. Per Ginox, attivista della comunità hacking e autore di Crypto Bluff, micro saggio pubblicato da Eris Edizioni, solo fuffa. Lo abbiamo intervistato per approfondire il tema in modo diverso, criticandolo.
L’idea delle criptomonete nasce diverso tempo fa, in circoletti sparuti di hacker, ma decolla solo nella seconda decade del 2000. Di cosa parliamo esattamente?
Sono delle monete digitali con un proprio ecosistema per gestire transazioni, pagamenti, ecc. L’idea di base è ricreare un circuito di scambio di moneta al di fuori dei circuiti bancari tradizionali, reso possibile da una commistione di algoritmi e applicazioni crittografiche. Le transazioni sono segnate in un libro mastro condiviso chiamato blockchain, che fa uso di tecniche crittografiche, simili a quanto avviene per la firma elettronica, per garantire la correttezza degli inserimenti. Attualmente svolgono una funzione prettamente speculativa al di fuori del classico mercato della borsa, cioè sono interpretate e utilizzate come una moneta di investimento. Vengono comperate e vendute per realizzare un profitto nel cambio di valore, che si aggiorna di continuo, come un titolo azionario. In minima parte sono utilizzate anche per il pagamento di beni e servizi di qualche tipo, più o meno legali.
Bitcoin è la moneta digitale più famosa del mondo, le sue origini però sono misteriose. Si dice, tra le varie cose, che sia stata creata sotto falso nome addirittura da Steve Jobs. Cosa c’è di vero?
Nasce nel 2008 a seguito di un documento tecnico in cui si illustrava l’idea e le basi teoriche per realizzarla. L’autore del documento è conosciuto solo attraverso lo pseudonimo Satoshi Nakamoto. Ci sono delle ipotesi sulla sua identità, ma alla fine è abbastanza poco rilevante come informazione. Il documento appare su una mailing list dedicata alla crittografia e sulle prime non suscita grosso interesse.
Poi che succede?
Succede che il sistema viene comunque realizzato e inizia la sua ascesa. In quegli anni era da poco esplosa la crisi dei mutui del 2008, e c’era una grossa sfiducia nelle istituzioni bancarie. Bitcoin cavalca quest’onda e insieme il mantra dell’innovazione. Cattura così l’interesse di venture capitalist, geek, liberisti insoddisfatti del sistema bancario, tecno entusiasti, economisti strambi, circolini finanziari dai grossi portafogli gonfi. Inizialmente lega il proprio nome a quello che ai giornalisti piace chiamare Deep Web, dove viene utilizzato per la caratteristica di rendere possibili pagamenti con un certo grado di anonimato. Da questo primo utilizzo ricava però una brutta fama, e si reinventa con maggiore profitto come facile giochino speculativo. Conosce il suo apice un paio di anni fa, ora è in un periodo di poca variazione. Ma in generale lo sono quasi tutte le criptovalute. Si parla infatti di inverno delle criptomonete.
Una sorta di audace mondo nuovo, quindi, basato sulla fiducia fra privati senza intermediari, garantito da sistemi informatici a prova di bomba: quando sono esplose le criptovalute si è parlato di rivoluzione, con il senno di poi, l’hanno fatta sul serio?
Più o meno ogni tecnologia messa sul mercato si autodefinisce innovativa e rivoluzionaria. Fa un po’ parte del gioco. La rivoluzione delle criptovalute assomiglia a una sorta di liberazione del capitale, abbastanza compatibile con la corrente di pensiero economico/sociale che vede nello stato e nelle istituzioni finanziare una sovrastruttura alla libera circolazione del capitale. Quest’ultima appare quasi come una sorta di stato di natura, nel quale l’autoregolamentazione del mercato modella in maniera virtuosa il vivere sociale. Le criptomonete realizzerebbero un pezzetto di questa visione.
Presso quale pubblico hanno fatto presa e perché, secondo te?
In generale in chi traffica con il mercato finanziario un po’ a tutti i livelli, sia speculatori accaniti sia gente normale che cerca la svolta facile. Per lo più viene presentato come un investimento più semplice del mercato azionario e capace di garantire grossi guadagni, o anche grosse perdite, ma su questa parte di solito si tende a glissare.
Il titolo del tuo saggio, Crypto bluff, svela la tua posizione sul tema. Andando dritti al punto: quale sarebbe il bluff?
Come sistema di pagamento più o meno anonimo, la faccenda delle criptovalute era interessante, ma solo fino a un certo punto, mentre come giochino speculativo di più e questa è la piega che ha preso. La mia riflessione si basa sulla constatazione che non sono andate oltre un utilizzo ambiguo delle parole d’ordine come comunità, condivisione, autonomia, libertà, ecc. per adattarsi ben presto all’indirizzo del mercato.
Un esperimento che è sfuggito di mano, dunque. Perché non sono ancora sparite?
Penso perché il capitalismo non è sparito. Difficilmente uccide i figlioli, al limite gli tira le orecchie quando esagerano.
Mesi fa l’improvviso crollo di Ftx, un mercato di scambi sulle criptovalute, ha spinto molti a proporre che la Decentralized finance, Defi, sia regolata e vigilata dalle Autorità finanziarie. È uno scenario possibile?
Ftx era un exchange, ovvero un’entità specializzata nello scambio tra monete tradizionali e criptovalute. La breve storia delle crypto monete è costellata di exchange che falliscono o scompaiono nel nulla, essenzialmente per problemi di liquidità. Ftx aveva un ampio giro d’affari, sembrava solido nella propria capacità di copertura finanziaria. Ma come spesso accade i soldi liquidi non c’erano o almeno non abbastanza. Troppi clienti hanno deciso tutti assieme di scambiare cripto con la più utile moneta sonante, e Ftx è fallita.
In qualche forma penso che le Autorità finanziarie si siano poste il problema di regolare le cripto, anche se non mi sembra una loro priorità. Hanno già i loro problemi a far funzionare il sistema delle banche tradizionali. Potrebbero anche sussumere qualche idea o meccanismo della Defi e integrarlo. Molti stati hanno normato in qualche modo le criptomonete, anche solo per dire che non si potevano usare o l’hanno interpretato come un capitale da dichiarare e quindi tassare, ma senza troppa convinzione. L’unione europea varerà a breve il Mica (Market in crypto assets), un tentativo di orientare le singole legislazioni nazionali in merito. Ma il punto è che il fenomeno della Decentralized finance attira interesse proprio perché poco regolamentato.
A cura di Livia Mordenti