Considerazioni tra grower sui sistemi idroponici
FERTILIZZANTI
Spesso quando si cercano informazioni sulla fertilizzazione si finisce per trovare più opinioni che grower, con conseguente aumento della confusione per i coltivatori alle prime armi.
Questo accade principalmente perché le piante, come ogni essere vivente, sfruttano una molteplicità di reazioni chimiche abbastanza complesse e le combinazioni di possibili interazioni con le molecole dei fertilizzanti e del substrato (specialmente se si tratta di fertilizzanti organici in terra) sono molte, quindi l’esperienza diretta di un coltivatore può risultare diversa da quella di un altro coltivatore o anche mutare nel tempo con le osservazioni fatte nello stesso sistema di riferimento; un secondo motivo per spiegare la confusione sui fertilizzanti è invece da ricercare nel marketing dei produttori di fertilizzanti che hanno un maggiore interesse economico nel promuovere l’acquisto di molti prodotti diversi e che quindi dalla confusione generalizzata traggono profitto. Un esempio è l’abuso che a volte si fa di termini come “bio”, “eco” o “naturale”, contrapposti ad aggettivi come “chimico” utilizzati con accezione negativa. Naturale e chimico sono due aggettivi che riferiti ai tipi di fertilizzanti non significano niente.
I fertilizzanti possono essere di due tipi, organici o inorganici: nei fertilizzanti inorganici (chiamati anche minerali) la soluzione acquosa è composta da molecole semplici di elementi necessari alla pianta senza la presenza di carbonio organico; nei fertilizzanti organici invece gli elementi nutritivi di base sono intrappolati all’interno di molecole organiche più complesse che hanno bisogno di essere demolite dall’azione dei batteri per renderli disponibili per l’assorbimento radicale. Tutto qui. Il resto è marketing.
Quando si organizza una coltivazione professionale a ciclo continuo con un sistema idroponico, o comunque con un substrato inerte come argilla, rockwool o cocco, la pianificazione dei fertilizzanti diventa molto più rilevante che nelle classiche coltivazioni in terra. Da una parte ci sono le ragioni economiche, dovute al fatto che il consumo di fertilizzanti nei sistemi idroponici è sempre molto alto e nelle produzioni a ciclo continuo la spesa su base annuale può arrivare ad incidere sul costo di produzione; dall’altra ci sono le ragioni pratiche dovute al fatto che nei sistemi con substrato inerte non ci si può permettere di restare troppo tempo senza fertilizzanti o correttori di pH, e quindi bisogna pianificare con anticipo gli acquisti e le scorte.
Per prevenire questi problemi una soluzione abbastanza pratica è quella di acquistare i fertilizzanti in taniche da 5 o 10 litri, anziché nei classici formati da 250, 500 o 1000 ml, per avere una riduzione del prezzo/litro e per avere una buona riserva di fertilizzanti da travasare poi in bottiglie più piccole (sono consigliate quelle per liquidi alimentari) per l’uso giornaliero.
Riguardo la scelta tra fertilizzanti organici o minerali, penso che in un’ottica professionale e/o commerciale, la scelta dei fertilizzanti minerali sia quasi sempre preferibile per diversi motivi.
Il principale è dato dalla difficoltà di avere delle misurazioni utili del valore di elettro conducibilità della soluzione, causata dalle molecole organiche che possono anche aumentare la saturazione della soluzione senza che questa venga rilevata dall’EC meter. Per non perdersi troppo nella teoria si può fare un esperimento pratico per capire questo concetto: prendete due bicchierini di plastica e riempiteli di acqua del rubinetto, misuratene l’EC e poi aggiungete sale da cucina nel primo e zucchero nel secondo fino a vedere un piccolo deposito sul fondo, poi provate nuovamente l’EC. Il bicchiere con il sale segnerà un EC altissimo (potrebbe anche mandare il misuratore fuori scala) mentre l’altro sarà rimasto sostanzialmente invariato. Questo avviene perché il saccarosio pur aumentando la saturazione della soluzione non influisce sull’elettro conducibilità della stessa che quindi apparirà con EC basso portandoci erroneamente a credere che ci sia margine per aggiungere altri fertilizzanti.
Il secondo motivo per cui i fertilizzanti minerali possono risultare più pratici di quelli organici è legato alla loro conservazione: i fertilizzanti organici liquidi sono soggetti ad un deterioramento maggiore e sarebbe meglio conservarli in un luogo buio, fresco e asciutto. Una cattiva conservazione (come a volte accade nei magazzini di alcuni growshop o in alcune terrazze assolate) potrebbe portare alla formazione di composti inaspettati o alla proliferazione di batteri pericolosi per le piante. Anche i fertilizzanti minerali liquidi possono essere soggetti al deterioramento dovuto ad una cattiva conservazione, ma in misura estremamente minore e generalmente caratterizzata dalla semplice presenza di accumuli solidi sul fondo dei contenitori.
Segnalo che da qualche anno sul mercato hanno iniziato a fare la loro comparsa fertilizzanti in polvere, da diluire in acqua solo all’occorrenza, che nel caso dei fertilizzanti inorganici potrebbe forse rappresentare il miglior metodo di conservazione e trasporto. Ma non avendoli ancora provati direttamente è presto per poterlo dire.
PH
Quando si parla di fertirrigazione o di soluzione nutritiva è importate interiorizzare il concetto che la pianta assorbe micro e macro-elementi solo grazie all’acqua e che quindi la qualità e le caratteristiche dell’acqua determinano in modo diretto l’assorbimento di nutrienti.
I due principali parametri a disposizione di un grower per determinare le caratteristiche dell’acqua che utilizza sono il valore di acidità (pH) e il valore di elettro conducibilità (EC); dando per scontato che tutti i grower con una certa esperienza sappiano di cosa si tratta, almeno a grandi linee, è curioso notare come spesso venga privilegiato un controllo più meticoloso del pH piuttosto che dell’EC quando invece in un sistema idroponico sarebbe più importante il contrario.
Questo non significa che il pH non sia importante (tutt’altro) ma che le caratteristiche dell’acqua di rubinetto lo rendono un valore variabile quanto quasi l’EC: ad esempio nelle acque “dure” la concentrazione di calcio (Ca) e magnesio (Mg) attuano un effetto tampone che contrasta l’attività degli acidi, quindi un’acqua particolarmente “dura” tenderà naturalmente ad alzare il proprio pH nel corso del tempo anche se la soluzione è stata precedentemente stabilizzata con un acido (pH).
In generale comunque è preferibile che la soluzione nutritiva non sia mai troppo acida: un pH inferiore al 5.5 o che tende sempre ad abbassarsi potrebbe essere un indicatore della presenza di colonie di batteri anaerobi che proliferano in ambienti acidi e con poco ossigeno e che in poco tempo possono causare la morte dell’apparato radicale delle piante.
Molti grower per mantenere un controllo costante di questo valore optano per l’acquisto di un misuratore digitale di pH, ma affidarsi completamente a questi strumenti potrebbe rivelarsi un errore dato che i misuratori (anche a sonda) hanno una forte tendenza all’usura e a perdere la corretta taratura; un consiglio utile è quello di avere sempre a disposizione un tester liquido per il pH per ricontrollare periodicamente che i valori restituiti dai misuratori digitali siano più o meno corretti.
Se invece si decide di utilizzare solamente un tester liquido bisogna ricordarsi di un paio di accorgimenti utili per evitare di falsare le misurazioni: il primo è di utilizzare per i correttori di pH (soprattutto se acidi) pipette e contenitori dedicati solo a quello scopo, per distinguerli da quelli utilizzati per gli altri prodotti sarà sufficiente applicare del nastro isolante sulle pipette o marcare i contenitori. Il secondo accorgimento è quello di evitare che il campione di acqua da analizzare entri in contatto con la nostra pelle (es. tappando con un dito la provetta per la misurazione) perché il pH acido della nostra pelle potrebbe acidificare tutto il campione da analizzare.
EC
Il secondo fondamentale valore che abbiamo a disposizione per conoscere la soluzione nutritiva che stiamo utilizzando è l’EC, ovvero l’elettro conducibilità della soluzione stessa, che ci dà un valore approssimativo della quantità di elementi nutritivi disciolti nell’acqua.
Questo valore dovrebbe sempre essere rapportato alla disponibilità di acqua che abbiamo nel nostro sistema ricordando che con una maggiore disponibilità di acqua sarebbe meglio mantenere un valore di fertilizzazione più basso che in un sistema con poca disponibilità di acqua; per esempio in un sistema DWC (Deep Water Culture) in cui la disponibilità di acqua è costante il valore EC dovrebbe essere tenuto più basso che in una coltivazione in cocco che preveda poche irrigazioni giornaliere.
Alcuni coltivatori che hanno un’acqua del rubinetto particolarmente inadatta alla coltivazione utilizzano acqua minerale in bottiglia per preparare la soluzione nutritiva: si tratta di un metodo che può essere utile nel caso di un paio di piante ma che si rivela antieconomico se esteso a molte piante e durante molto tempo. La soluzione più pratica in questi casi è valutare l’acquisto di un filtro ad osmosi o altri filtri analoghi.
Un concetto importante riguardo alla fertilizzazione idroponica con soluzioni nutritive è quello di offrire alle piante sempre “fertilizzanti freschi” ovvero un apporto costante di soluzione nutritiva nuova, questo per evitare depositi ed accumuli che sarebbero difficilmente differenziabili dalla percentuale di fertilizzanti totali presenti nella soluzione (come ad esempio i carbonati). Se ricordate il precedente esempio con acqua e zucchero, nel caso di accumuli salini si potrebbe anche verificare l’opposto, ovvero registrare un valore EC alto che però maschera una bassa disponibilità effettiva di nutrienti utili alla pianta che quindi può manifestare carenze portandoci a credere che sia necessario aumentare ulteriormente la fertilizzazione.
Il consiglio, nel caso si utilizzino depositi per la soluzione nutritiva, è di tenere poca acqua in circolo nel sistema e di fare rabbocchi e cambi più frequenti. Nel caso invece di setup senza deposito, lo stesso effetto si può ottenere procedendo periodicamente con un flush per eliminare dal substrato eventuali residui e fornire una soluzione nutritiva con valori ottimali e fertilizzanti nuovi. Questo metodo generalmente si rivela efficace per risolvere sia carenze che eccessi, perché funziona come “reset” radicale dei valori ideali. L’equivalente botanico di una lavanda gastrica o di una flebo di soluzione salina.
Attenzione anche a non confondere le semplici carenze con problemi radicali più gravi, perché anche se i sintomi sono gli stessi le cause sono diverse: nel primo caso si tratta solo dei livelli insufficienti di nutrienti disciolti nell’acqua, nel secondo caso dell’impossibilità di assorbire correttamente i nutrienti presenti, per esempio a causa di marciume radicale. Nel caso in cui ci si trovi ad affrontare una situazione d’emergenza di questo tipo, una possibile soluzione può essere un bagno rapido delle radici in una soluzione di acqua e candeggina (poche ppm) o di acqua ossigenata.
a cura di Madman