Le conseguenze della bocciatura della Fini-Giovanardi
La Fini-Giovanardi è incostituzionale, ecco perché e cosa potrebbe accadere
Quali sono le effettive conseguenze della sentenza n. 32 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’incostituzionalità degli art. 4 bis e 4 vicies ter del DL 272/2005 (Fini-Giovanardi)? Per rispondere si deve operare una duplice valutazione. Sul piano della politica giudiziaria appare evidente la censura della Consulta verso il legislatore. Vengono biasimate le scelte di ricorrere allo strumento del decreto legge (attesa l’assenza di ragioni di urgenza ed indifferibilità, presupposti per l’applicazione dell’art. 77 Cost.), di avere stravolto l’originario testo del D.L. 272/2005, con modifiche strutturali che, rispetto allo stesso, appaiono prive di correlazione (nel testo definitivo vi erano ben 23 articoli, pur a fronte dell’unico originario articolo previsto nel DL) e di avere occultato l’intervento normativo all’interno del decreto di rifinanziamento delle olimpiadi del 2006.
FINI-GIOVANARDI INCOSTITUZIONALE: ORA CHE SUCCEDE?
È, poi, importantissimo rilevare che la pronuncia d’incostituzionalità, permette di ripristinare il regime sanzionatorio della Jervolino-Vassalli, che prevedeva un duplice e distinto trattamento fra droghe pesanti e leggere. Per queste ultime si perviene ad un’attenuazione delle pene previste; si ritorna al regime del co. 4° dell’art. 73 dpr 309/90, che prevede una pena della reclusione da 2 a 6 anni oltre alla multa e che può, quindi, essere applicata anche retroattivamente, in quanto più favorevole all’imputato. Anche per condotte commesse prima della pronunzia della Consulta (12 febbraio 2014 in G.U. il 6 marzo 2014), la pena da prendere a parametro, in caso di affermazione di penale responsabilità, è quella ripristinata a seguito della sentenza n. 32; con un indubbio vantaggio per tutti i procedimenti in materia marijuana ed hashish.
Per le droghe pesanti (cocaina, eroina etc.) il discorso appare del tutto differente. Si determina, infatti, un inasprimento della sanzione che ora va da un minimo di 8 anni di reclusione (prima erano 6), ad un massimo di 20. In questo caso la legge abrogata – che era, quindi, più favorevole – continua a produrre effetto sino alle date sopra indicate (quanto meno al 6 marzo 2014 data di pubblicazione); solo per i fatti commessi dopo il 6 marzo 2014, riprende vigenza il più grave trattamento sanzionatorio. Per quanto concerne il co. 5° dell’art. 73, in tema di lieve entità, sono sorti particolari dubbi. Questa disposizione è stata modificata dall’art. 2, decreto-legge 146/2013, convertito nella legge 10/2014, che ha modificato la lieve entità da circostanza attenuante a reato autonomo. Le modalità dell’intervento provocano, però, una serie di problemi anche di natura costituzionale. L’attuale testo del co. 5°, che regola casi a partire dal 24 dicembre 2013, prevede un’unica pena per tutte le sostanze stupefacenti, in contraddizione, quindi, con l’art. 73, che distingue inequivocabilmente le stesse. Sorge, quindi, per tale ragione, un evidente dubbio di costituzionalità. Riguardo al co. 5°, in relazione alle conseguenze date dalla sentenza n. 32, si deve osservare che, per quanto attiene alle droghe leggere, vige il discorso fatto in precedenza, in relazione all’ipotesi ordinaria; il regime ripristinato introduce un trattamento di maggiore favore (pena da 6 mesi a 4 anni di reclusione, oltre multa), che ha anche operatività retroattiva. Per le droghe pesanti andranno, invece, effettuate alcune distinzioni.
Si deve, infatti, rilevare che la Jervolino-Vassalli prevedeva anch’essa una pena della reclusione da 1 a 6 anni (oltre multa), sicché, da un confronto fra i due testi, si deve concludere che non risulta differenza alcuna tra i due sistemi, in relazione ai fatti commessi a tutto il 23 dicembre 2013. Per i fatti, invece, commessi dopo il 24 dicembre 2013, l’art. 2 L. 10/2014 appare di maggior favore, rispetto all’altra previsione normativa, perché il massimo edittale è di cinque anni, in luogo di sei. Ovviamente tale norma non può, però, disporre retroattivamente. Nulla muta, invece, sia per la coltivazione, che per la detenzione.
Per la coltivazione resta la previsione di reato di cui all’art. 73 dpr 309/90.
Sempre più giudici di merito, però, ritengono che in specifiche situazioni la coltivazione non costituisca reato, sulla base dell’utilizzo di due parametri.
Il primo di essi (propugnato da sempre dallo scrivente) impone la valutazione di un perito di ciascuna delle piante che vengano sequestrate. Allo stato attuale, in troppi processi, la consulenza tossicologica viene svolta commettendo due errori prospettici fondamentali.
Il primo consiste nel fatto che si reputa sufficiente una verifica qualitativa, accontentandosi di certificare la sola presenza generica di THC nei reperti; si tratta di opzione inaccettabile processualmente.
L’attestazione di presenza generica di THC non è affatto sufficiente a:
– precisare il sesso della pianta
– certificare la percentuale e l’effettivo quantitativo del principio attivo contenuto.
Questi sono i due dati fondamentali per comprendere (qualunque sia il numero di piante), quali di esse potesse essere già in grado di produrre sostanze psicoattive.
E’ necessario accertare in concreto – perché la coltivazione ove ritenuta illecita, va considerata reato di pericolo concreto – tutti i caratteri genetici che contraddistinguono ogni vegetale.
Il secondo riguarda la contestazione della scelta di usare una valutazione aritmetica globale e non individuale in ordine al THC rinvenuto. E’ dall’esame individuale di ciascuna delle piante che si può pervenire all’individuazione di un’eventuale ipotesi di reato. Quindi, affermare che, complessivamente inteso, il materiale coltivato presenti un certo principio attivo, oppure una certa percentuale di principio attivo, costituisce un errore di carattere sistematico (Cfr. GUP Lecco 25 marzo 2014 e GUP Pisa 2 aprile 2104).
Si deve, poi, continuare a seguire la strada della relazione fra coltivazione ed uso personale. In questo senso, al di là dei principi introdotti dalle notissime sentenze del giudice monocratico di Ferrara o del Gup di Cremona, anche la Corte di Cassazione (sent. 12612/13 – 18 marzo 2013 Sez. Sesta) ha evidenziato la rilevanza dell’offensività della condotta. Ove la coltivazione, anche se astrattamente idonea a violare la norma, si riveli, in realtà, indirizzata a scopi di versi da quelli oggetto della tutela giuridica, non vi è, quindi, reato. Poiché la finalità del dpr 309/90 è quella di evitare la diffusione degli stupefacenti, una coltivazione che si orienti a soddisfare necessità personali del solo coltivatore, appare non confliggente con gli scopi tutelati. Per la detenzione, continuano a potere essere utilizzabili i criteri precedentemente previsti.
La sola detenzione di quantitativi non eccessivi (ove il THC non sia particolarmente elevato) può essere ritenuta destinata all’uso personale, se vi sia assenza di elementi assumibili a prova di un’attività di spaccio o di cessione a terzi (sostanza da taglio, presenza di strumenti per il confezionamento di singole dosi), oppure ove il detentore risulti assuntore.