Come saranno i social network del futuro?
Nati negli anni Zero, dilagati nel decennio successivo fino a diventare parte stessa delle vite di chiunque, tanto da rendere praticamente inimmaginabile un mondo senza. Senza social network, s’intende. La domanda legittima, a questo punto, è cosa ci aspetta negli anni Venti, all’alba del loro inizio. Quale direzione prenderanno i social? Assisteremo a un aumento della consapevolezza critica da parte degli utenti?
Era il 2010 quando nella scena finale di “The Social Network” David Fincher immortalava Jesse Eisenberg/Mark Zuckerberg intento a refreshare la propria pagina Facebook, nell’attesa che la sua ex ragazza accettasse la richiesta d’amicizia; una sequenza probabilmente frivola ma molto efficace per illustrare da un lato il cortocircuito emotivo del fondatore di Facebook, per così dire vittima della sua stessa creatura; dall’altro per sancire il mutamento antropologico delle relazioni sociali. Nel frattempo il potere dei social network, nati essenzialmente per rimorchiare, ha continuato ad aumentare in modo esponenziale, condizionando scelte economiche, sociali e politiche. Basta ricordare le elezioni presidenziali in America del 2008 (Barack Obama) e 2016 (Donald Trump), segnate entrambe da un uso massiccio della propaganda web; nel secondo caso, con l’esplosione del caso Cambridge Analytica e tutto quello che ne è conseguito. Ma la matassa ingarbugliata delle reti – del resto, ingarbugliate lo sono per definizione – deve fare i conti con una raffica di contraddizioni e pericoli ulteriori; dal condizionamento emotivo fino al parossismo della cosiddetta “gogna”, e ancora con la proliferazione di gruppi violenti, l’algebra politicamente scorretta eppure implacabile delle fake news, l’emersione di movimenti neofascisti.
Utilizzati da milioni di persone e di fatto retti da un numero assai limitato di società, diciamo tre – quattro, i social network sono un immenso calderone di potere e potenziale propaganda. Un po’ di dati: nel 2019 (fonte: Digital 2019) l’81% degli italiani si è dichiarato utente attivo di Facebook, il 55% di Instagram e il 32% di Twitter. Ora, a questi numeri bisogna aggiungere che ognuno dei tre social citati ha un modello di funzionamento centralizzato, in cui dati e applicazioni risiedono in un unico sistema elaborativo, un archivio infinito che contiene informazioni di ogni genere. È facile comprendere quanto questi dati siano preziosi; si tratta della più gigantesca profilazione – oltretutto autoindotta, e quindi molto accurata – nella storia del genere umano. Durante la campagna per le presidenziali americane del 2016, la società Cambridge Analytica ha acquisito da Facebook le informazioni sensibili di oltre cinquanta milioni di utenti, orientando in questo modo la propaganda a favore di Donald Trump. Secondo lo stesso social network, l’acquisizione di Cambridge Analytica era scorretta e violava le regole di Facebook, tanto che in seguito la società con sede a Londra è stata bandita dalla piattaforma; tuttavia, il “Guardian” ha riferito che Facebook era a conoscenza del lavoro di Cambridge Analytica già da due anni, e nessuno, da Mark Zuckerberg in giù, è mai intervenuto.
Il caso Facebook-Cambridge Analytica ha tenuto banco per settimane, minando la credibilità del social network più diffuso del pianeta e favorendo l’apertura di un dibattito critico, ma alla fine dei conti non si è verificato nessun esodo di massa da parte degli utenti; il colpo è stato ben assorbito. Le ragioni di chi contrasta il modello monopolistico/centralizzato dei social network restano tuttavia sul campo, e qualcosa – lentamente – sembra muoversi. Da anni, chi volesse reclamare un web più libero, vicino allo spirito libertario delle origini e non il gigantesco moloch conformista che è diventato, può rivedersi nei saggi taglienti e ben argomentati di Jaron Lanier. Sviluppatore, informatico e tra i pionieri della realtà virtuale, Lanier non può essere di certo tacciato di luddismo o di retorica reazionaria; le sue critiche si concentrano sul funzionamento dei social, dalla dopamina che rilasciano sugli utenti attraverso il meccanismo dei “like” fino alla limitata libertà d’espressione concessa agli utenti (la cosiddetta “identità a scelta multipla”: le piattaforme ci concedono una possibilità limitata di scelte, dall’interfaccia fino alla cornice semantica che veicola i contenuti, pressoché uniforme). Oltre, va da sé, che sul possesso dei dati.
Come sempre, la battaglia contro i colossi non è affatto semplice. Ma qualcuno ci prova, riuscendo a ottenere, se non vere e proprie rivoluzioni, almeno qualche riforma. Attiva dal 2011, IndieWeb è una comunità che sviluppa software capaci di garantire a blogger e attivisti di conservare i propri dati sul web in modo indipendente, utilizzando inoltre strumenti che decentralizzino la comunicazione e la distribuzione dei contenuti. Anche se in ritardo, e con tutte le incognite del caso, sembra essere questa la direzione intrapresa da Jack Dorsey: a dicembre scorso il co-fondatore di Twitter ha annunciato di aver messo in piedi un team di ricerca a lavoro per sviluppare uno standard aperto e de-centralizzato per i social network. Il progetto si chiama Bluesky e l’obiettivo è di decentralizzate le reti di social media – rendendole più simili alla posta elettronica – in modo che gli utenti possano unirsi a reti diverse ma comunque comunicare tra loro, indipendentemente da quale stiano utilizzando. Ma un fattore sembra scontato, decisivo: il cambiamento della struttura interna ai social sarà possibile solo con l’aumento della consapevolezza critica da parte degli utenti.