Come la Cina starebbe manipolando il giornalismo internazionale
Secondo un rapporto dell’International Federation of Journalists (IFJ), il governo cinese porta avanti una massiccia campagna per “comprare” il favore di giornalisti internazionali soprattutto su temi scottanti quali la repressione degli uiguri e i campi di detenzione. Viaggi pagati alla stampa, ingressi finanziari in gruppi editoriali, fornitura di materiali ai sindacati giornalistici e creazione di servizi radio e tv, o anche addirittura di interi giornali o tv. Succede ad esempio (e almeno) nelle Filippine, in Kenya, in Myanmar, in India. La cosa è particolarmente scottante visto il momento storico dopo la questione dazi, lo scoppio della pandemia di coronavirus e le durissime accuse Usa-Cina, che fanno parlare in molti di tensioni militari nel Pacifico e prospettive di guerra neanche poi tanto fredda.
L’analisi internazionale
A dirlo è un sondaggio condotto da sindacati giornalisti in 58 Paesi, al quale dà ampio risalto il Guardian con una serie di articoli. La Cina starebbe “conducendo una vasta e sofisticata campagna di sensibilizzazione a lungo termine … [in] una strategia che punta a rimodellare il panorama mondiale delle notizie con una narrazione globale favorevole alla Cina”.
Il rapporto “The China Story: rimodellare i media del mondo” sostiene che Pechino lo stia facendo con viaggi pagati per i giornalisti, appunto, oppure cercando di ottenere il controllo delle infrastrutture di messaggistica – uno dei principali canali attraverso i quali le notizie girano a livello internazionale – o comprando azioni di media stranieri e facendo tutta una serie di iniziative di comunicazione su larga scala. Il rapporto spiega che la campagna decennale “sembra essere in aumento”.
I risultati
Il sondaggio, condotto dal settembre all’ottobre 2019, ha chiesto ai sindacati giornalistici di 58 Paesi – tra Asia-Pacifico, Africa, Europa, America Latina, Nord America e Medio Oriente – se avessero ricevuto contatti da Pechino, ovvero proposte di viaggi sponsorizzati o accordi sulla condivisione di contenuti con enti cinesi.
Il risultato è stato che i giornalisti di 29 nazioni su 58 erano stati in viaggio pagato in Cina. Un terzo dei sindacati giornalistici intervistati era stato avvicinato da entità cinesi in cerca di accordi congiunti. La ricerca ha scoperto che Pechino fa sempre più affidamento su giornalisti non cinesi, in particolare dai Paesi in via di sviluppo, ma non solo, per diffondere il proprio punto di vista.
La questione Uiguri
Un esempio è stato un recente tentativo di Pechino di respingere le narrazioni occidentali sulle violazioni dei diritti umani nei campi di indottrinamento politico nella provincia occidentale del Xinjiang, dove Pechino detiene fino a un milione di membri della minoranza uigura, secondo le stime delle Nazioni Unite. Lì Pechino avrebbe portato diversi gruppi di giornalisti di Paesi musulmani per ottenere sostegno internazionale a favore della sua dura strategia di contrasto all’”estremismo religioso”, come lo definisce Pechino.
Caccia ai giornalisti Usa
Dall’altro canto, il governo cinese avrebbe poi rifiutato di rinnovare i visti ai giornalisti statunitensi più “indisciplinati” che lavorano nel Paese. Di oggi la notizia che continuano le tensioni tra Usa e Cina sulla presenza di media nei rispettivi Paesi. Dopo la scelta del Dipartimento di Stato americano di considerare altri 4 media cinesi come “missioni straniere” a causa del controllo diretto e indiretto esercitato dal governo di Pechino, la Cina ha chiesto alle sedi locali di quattro media americani – Associated Press, Upi, Cbs e Npr – di dichiarare in forma scritta le informazioni su staff, finanze e asset immobiliari.
I viaggi pagati alla stampa occidentale
Ma cosa succede nei viaggi d’istruzione pagati ai giornalisti internazionali? Il Guardian approfondisce questo aspetto notando prima di tutto che a parte i Paesi in via di sviluppo – come le Filippine – oltre 120 giornalisti statunitensi avrebbero partecipato a questi tour, così come almeno 28 giornalisti australiani. Visitano asili nido, mercati artigianali, aziende high-tech, dighe idroelettriche e… campi di indottrinamento politico come appunto quelli destinati a “rieducare” gli uiguri.
Il caso Myanmar
Tra i giornalisti coinvolti nello studio, in Myanmar, è emerso che tutti i giornalisti intervistati erano stati in tournée pagate in Cina. Uno di loro era stato novevolte. Il risultato è stato che i loro articoli sul viaggio sono stati per la maggior parte positivi: c’è stato chi ha enfatizzato la modernità e gli sviluppi tecnologici della Cina, mentre alcuni hanno ammesso di aver direttamente firmato accordi che promettono di non scrivere critiche sul Paese. In molti casi, gli articoli scritti hanno ripetuto fedelmente quanto suggerito. “Tutti hanno scritto di quanto sia bello [lo Xinjiang] o di certe storie che lodano la Cina per aver represso i terroristi”, ha osservato un giornalista filippino. Dodici reporter che hanno visitato il campo di rieducazione nel gennaio 2019 hanno visto i loro volti sul principale organo di informazione televisivo nazionale cinese mentre intervistavano i detenuti sorridenti.
Gli “aiuti” diretti
Secondo l’inchiesta, le organizzazioni giornalistiche di mezzo mondo stanno ricevendo aiuti sostanziali dalle autorità cinesi, spesso con il coinvolgimento delle ambasciate locali. Computer e registratori donati alla piccola e povera Guinea-Bissau, o uno studio hi-tech costruito con finanziamenti cinesi per la televisione kenyana.
Ci sono intere produzioni tv, joint venture, programmi televisivi e radiofonici sponsorizzati dalla Cina e persino intere testate nate su finanziamento della Cina, come è successo in Myanmar per il quotidiano Pauk Phaw. Le aziende cinesi userebbero intensivamente anche app e social per catturare il pubblico digitale. In India, per esempio, il canale UC News – che trasmette in hindi e in altre 15 lingue locali – ha 50 milioni di utenti. Gli scontri con gli Uiguri avvengono al confine del Paese: ma è molto, molto difficile trovare traccia delle tensioni tra governo cinese e uiguri nei media.