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Coltivazione di Cannabis: quando è reato

Coltivazione di Cannabis: quando è reato

In un testo quantomeno interessante come Produzione e traffico di sostanze stupefacenti, il concetto di coltivazione viene concepito in modo particolarmente ampio. Si giunge al punto di comprendere, non solo le classiche condotte che – usualmente – emergono nel contesto delle quotidiane indagini penali, ma, addirittura, anche attività iniziali e propedeutiche quali «rottura del suolo, preparazione del terreno… svolte su piante idonee a produrre stupefacenti», che difficilmente vengono evocate in sede penale. Il testo ritiene che la coltivazione possa risultare astrattamente punibile già a far data «dalla messa a dimora dei semi». Ciò posto, mi permetto di osservare che l’orizzonte tratteggiato, in relazione alle condotte ricomprendibile nella nozione di coltivazione, mi pare eccessivamente esteso.

La rottura del suolo, la preparazione del terreno costituiscono azioni preliminari che di per sé non paiono sufficienti a fungere da dimostrazione materiale di una possibile coscienza e volontà dell’agente di dare effettivo corso a una coltivazione di carattere penalmente rilevante.

Appare evidente il rischio di introdurre un elemento meramente presuntivo e congetturale, in luogo di elementi indiziari (o probatori) certi e di dare corso a un pericolosissimo processo a intenzioni. Suscita, altresì, perplessità la circostanza che, pur affermando che la coltivazione di piante di canapa, priva dell’autorizzazione di cui all’art. 17, costituisce reato, si collochi, poi, il momento di decorrenza della punibilità della coltivazione nell’atto della messa a dimora dei semi. Se, dunque, è l’atto della messa a dimora dei semi, il momento della possibile commissione del reato di coltivazione illecita, ne consegue che la rottura del suolo e la preparazione del terreno vengono logicamente (e giuridicamente) a risultare, di conseguenza, condotte irrilevanti (ed esterne) sul piano della norma penale, con buona pace della chiarezza e della coerenza logico-interpretativa.

Chi scrive non condivide assolutamente la tesi dell’anticipazione della soglia temporale di punibilità dell’azione coltivativa (sancita dalla Corte Suprema) al momento della messa dimora. Tale scelta pone, infatti, sotto la lente del diritto penale una situazione di mera e teoretica potenzialità (che ancora non può costituire occasione di pericolo).

Di altre contraddizioni normative e giurisprudenziali relative alla coltivazione, scrive Miazzi in un articolo apparso su Dir. Pen. Contemp. n. 3/2018. Tali antinomie riposano, ad esempio, nella non punibilità della detenzione e vendita di semi di cannabis a fronte della perseguibilità della coltivazione effettuata con detti semi. Ed ancora, l’autore rileva come appaia anomala e illogica la circostanza, che si pervenga, al contempo (e nel medesimo procedimento) a condanna per coltivazione e ad assoluzione dell’imputato che detenga marijuana o hashish derivati proprio dalla pregressa coltivazione sanzionata penalmente. Si tratta di considerazioni del tutto condivisibili, nella loro solare evidenza. Chi scrive, però deve dolersi della circostanza che esse, pur essendo ormai sedimentate in dottrina, vengano disattese sistematicamente nelle varie pronunzie di rito (e talora di merito), rimando sterili enunciati privi di effettive conseguenze. La realtà processuale, troppo spesso, appare guidata da un approccio – in fatto e in diritto – fondato su meri principi astratti, che risultano, in pratica, privi di collegamento con la quotidianità forense.

La feroce sanzionabilità della coltivazione produce, quindi, due elementi processuali di natura discrasica:
A. l’imputato, trovato nel possesso di derivati della cannabis (che egli abbia in precedenza coltivato), sarà, quindi, naturalmente portato a mentire in ordine alla provenienza della sostanza. Falsamente egli dirà, pertanto, di avere acquistato lo stupefacente da terzi;
B. l’ordinamento legislativo e quello giudiziario italiano, ciascuno per la propria parte, puniscono assurdamente – sotto il profilo penale – la fase (e la procedura coltivativa) di ottenimento di un prodotto, il quale, una volta esaurita la coltivazione, può, invece, essere detenuto per uso e consumo personale, senza ricadere in divieti di natura penale.

È evidente che l’azione del detenere sostanza derivata dalla coltivazione di canapa, per il proprio consumo e fabbisogno personale, trovi la propria ragion d’essere proprio nella coltivazione, che ne appare presupposto strumentale. La descritta progressione dell’azione e la immutabilità del soggetto operante garantiscono, poi, quel nesso di immediatezza fra coltivazione-prodotto-agente, che, invece, apoditticamente (e anche per una immodesta non conoscenza del mondo della cannabis), la giurisprudenza persiste cocciutamente a negare sin dal 2008 (SSUU n. 28605).

Altro aspetto che mi pare di particolare interesse riguarda ulteriori considerazioni concernenti le coltivazioni domestiche.

In “Produzione e traffico di sostanze stupefacenti” l’autore evidenzia che due siano state le strade percorse per potere ricondurre a un regime di non punibilità, in concreto, il fenomeno della coltivazione domestica. L’una (definita «più realistica ed aderente al dettato della legge») riconoscerebbe particolare rilevanza alla «necessaria offensività» della condotta coltivativa. La seconda, invece, focalizzerebbe la nozione di tipicità del fatto, precisando che il concetto di coltivazione tipica non si attaglia a chi metta a dimora poche piante per il proprio fabbisogno personale.
Nonostante gli autorevoli arresti della Suprema Corte, chi scrive ritiene che, in realtà, le due tesi rappresentate – che si mostrano in evidente conflitto – costituiscano due aspetti tra loro complementari: la teoria della tipicità del fatto altro non è che un’evoluzione concettuale di quella della necessaria offensività. Per comprendere appieno quanto si va sostenendo, appare necessario tenere presente che la svalutazione penale della coltivazione domestica deriva esclusivamente da un giudizio di merito che sancisca un limitato afflato offensivo della condotta. A tale fine, la configurazione, nel caso concreto, dei parametri fissati da SSUU n. 12348/20, è elemento del tutto decisivo.

Una coltivazione di cannabis effettuata su basi quantitative limitate e per dichiarati fini di autoconsumo dello stesso coltivatore, ancorché riconducibile astrattamente al concetto generale di coltivazione, non può essere sanzionata penalmente. L’assenza del carattere dell’offensività priva, infatti, di tipicità penale, la condotta coltivativa, che per i tassativi requisiti fissati dal Cass. 12348/20 può configurare un profilo domestico e che viene estromessa dal recinto della norma incriminatrice. Essa, così, appare, in modo chiaro, oggettivamente (e soggettivamente) differente sul piano strettamente giuridico, rispetto a quella agraria, la quale rimane l’unica effettivamente perseguibile.

Coltivazione di Cannabis: quando è reato



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