Coltiva per la madre malata, condannato. Coltiva per la moglie malata, assolto
Un uomo di Biella coltivava in casa tre piante di cannabis per alleviare i dolori della moglie, colpita da una grave malattia degenerativa, e poter ridurre il suo uso di antidolorifici. Il giudice per questo lo ha assolto in quanto “il fatto non sussiste”.
Un uomo di Roma coltivava in casa quattro piante di cannabis per alleviare i dolori della madre, gravemente malata. Aveva preso la decisione di coltivare in casa dopo mesi passati a cercare inutilmente di ottenere la cannabis legalmente. Il giudice per questo lo ha condannato a un anno di reclusione.
Due sentenze diametralmente opposte per una medesima condotta, nel medesimo paese, con giudici che in teoria dovrebbero interpretare la medesima legge. Ma quale certezza ha il diritto in Italia?
La domanda è d’obbligo. Una risposta razionale, basata sulla legge, ci piacerebbe averla ma ormai abbiamo imparato che di fronte a una serie di articoli di legge (quelli sulla produzione di sostanze stupefacenti) che delegano la condannabilità o meno di condotte analoghe alle valutazioni personali di un giudice non possiamo aspettarci altro che risultati come questo.
Da quando è stata abolita la legge Fini-Giovanardi (febbraio 2014) abbiamo letto, e spesso scritto, di decine di processi per coltivazione di cannabis. Due piante: assolto; due piante: condannato; quattro piante ma con poco principio attivo: assolto; quattro piante sempre con basso principio attivo: condannato. Una totale schizofrenia interpretativa.
In attesa che la politica, con i suoi tempi irrispettosi della vita di milioni di cittadini e di migliaia di malati, arrivi un giorno a produrre una nuova legge sulla cannabis, il destino di tantissimi consumatori di cannabis, per scelta o per necessità dipende da due cose: l’orientamento e l’umore del giudice che si troveranno di fronte e la loro possibilità di pagarsi o meno un avvocato capace. Questa è la verità.