Colle der Fomento: il destino di andare controcorrente
Nel ’96 esplosero nella scena come dinamite con “Odio Pieno”. Ventidue anni e tre dischi più tardi, la formazione romana leggenda del rap di casa nostra è tornata, dopo un lungo silenzio, con “Adversus”. Ma chi sono oggi Danno, Masito e Dj Baro?
Dall’ultima uscita discografica sono passati la bellezza di undici anni, ma in questo lungo lasso di tempo il Colle non si è mai fermato. Ha suonato una miriade di live e raccolto esperienze a lato, da “Gli originali” con Franco Micalizzi, alle collaborazioni con Il muro del canto e La batteria, arrivando a una visione nuova, ma sempre fedele alla linea, del rap. È nel nuovo disco, prodotto da Dj Craim con i ft. di Kaos e Roy Paci, nel documentario “Per tutto questo tempo” e nei live con cui, a breve, gireranno per lo Stivale. Abbiamo incontrato Danno e Masito che ci hanno raccontato i retroscena del loro attesissimo ritorno e il senso sempre più controcorrente della loro musica.
Cos’è successo negli anni che separano “Adversus” da “Anima e Ghiaccio”?
M: Quando siamo usciti con “Anima e Ghiaccio” tante cose non erano successe ed era anche un periodo un po’ morto nel rap italiano, quello che avevamo intorno non ci stimolava. Poi c’è stata un’ondata grossa di arrivi, sono cambiati il suono e le tematiche, tutto quello che è successo ci ha confusi, quindi abbiamo perso tempo, partivamo in una direzione, poi non ci piaceva più, azzeravamo e ricominciavamo tutto da capo. È successo più volte, anche perché non avendo un produttore interno al gruppo eravamo costretti ad andare in giro per l’Italia a chiedere una base qua, una là e il rischio era quello di fare una playlist, mentre noi volevamo fare un disco alla vecchia maniera, con un’atmosfera unica e un suono particolare, che c’è solo lì. Quindi dopo “Sergio Leone”, nel 2013, abbiamo capito la strada che poteva essere buona per noi e siamo ripartiti più seriamente.
Quanto è stato complesso ritrovare una dialettica che fosse in linea con la vostra evoluzione e coi tempi?
M: Tutti si aspettavano un disco boom bap, anni ’90, ma noi volevamo andare avanti. A livello di testi abbiamo raccontato anche le nostre paure, i nostri difetti, tutto quello che provavamo, pensando che magari anche a qualcun altro capita di avere dei timori o di non ritrovarsi in questi tempi telematici. Verso dopo verso, quindi, raccontiamo semplicemente quello che pensiamo, perché è reale, è questo momento della nostra vita.
D: Abbiamo cercato anche di fondere un po’ il suono tradizionalmente Hip Hop con la musica. La missione era anche quella di mettere l’ascoltatore nella posizione di chiedersi: ma questa roba è suonata o è campionata? Tutti e due. Con Craim abbiamo fatto un ragionamento molto lungo e complesso su che tipo di suono cercavamo e, alla fine, abbiamo provato a individuare quel suono Hip Hop che fosse adulto, perché abbiamo notato che quello che è rimasto di certi gruppi aveva una pasta suonata. Parlo di certe robe dei Beastie Boys, dei Roots, A Tribe Called Quest, dove c’era un contributo di musicisti, però usato sempre in chiave Hip Hop. È una cosa che non avevamo mai fatto quella di chiamare dei musicisti a suonare delle cose per poi campionarle, smontarle e rimontarle. C’è stata un’attenzione molto grande all’aspetto sonoro.
E si sente, ma già la notizia del vostro ritorno era stata accolta come l’arrivo di un supereroe a salvarci dall’apocalisse del rap. Come vivete la cosa?
M: Ci lusinga, però è questa responsabilità che ci ha fatto ritardare il disco. Ti senti che devi fare, devi fare, in realtà noi non vogliamo cambiare nulla.
D: La missione è: prima cosa, salvare noi stessi. Noi facciamo il nostro e se questo contribuisce e riesce ad aggiungere qualcosa a questa scena e a questa musica, a dare un colore diverso rispetto ai colori dominanti, meglio, ma non è mai stato nei nostri intenti dire ora arriviamo noi e mandiamo tutti a casa. Zero. Vogliamo solo dire: eccoci, oggi siamo questi qua, se vi piace bene, se non vi piace, non è un problema.
Per voi cos’è rimasto uguale e cos’è cambiato dai tempi di “Odio Pieno” e “Scienza doppia H”?
M: Come allora, anche oggi siamo diversi da tutto, anche dal nostro stesso ambiente. Sembra che negli anni ’90 ci si volesse tutti bene. No, a parte agli scazzi che c’erano e ci sono anche oggi, vuoi o non vuoi, noi avevamo un suono e dei testi diversi da tutti. Quell’attitudine di andare contro corrente è quasi un destino, che un po’ hai scelto e un po’ è capitato, cioè, va al di là di noi.
D: Sicuramente, nella prima parte, la sfida era molto più sentita con gli altri, dovevamo imporci, dovevamo imporre il nostro nome, farlo conoscere e metterlo dentro il libro del rispetto. Oggi la sfida è più con noi stessi, è riuscire a fare ancora questa roba in una chiave che ci soddisfa, che sentiamo nostra e che ci piace.
Cosa sarebbe successo nei ’90 se il rap avesse avuto l’esposizione mediatica che ha oggi?
M: Non saremmo stati preparati. Oggi quelli più giovani sono bravi a gestire questa mole di affari e a comunicare con le persone, lo sanno fare, gli funziona in questi termini. Noi forse eravamo più ingenui, più bambini.
D: Ma non pensavamo neanche fosse possibile, onestamente. Avevamo da subito capito che il modo in cui facevamo noi il rap era per gli appassionati del genere. Però io ho sempre detto: non possiamo andare sempre tutti incontro al grande pubblico, se no, chi ci pensa a quegli altri? A me chi ci pensa, che non mi piace quasi mai il prodotto mainstream? E noi facciamo musica per quelli come noi, se poi un giorno quelli come noi saranno tantissimi ci stupiremo, perché ci siamo sempre sentiti un po’ in disparte rispetto alla maggioranza, ma è un fattore naturale.
Se vi guardate attorno, trovate una vostra traccia nei nuovi?
D: A Roma ormai ci sono tante scene, tantissimi gruppi e sicuramente ce ne sono tanti che hanno un denominatore comune. Non voglio dire che partono da noi, ma c’è una scuola comune. Penso ai Brokenspeakers, a quelli che erano i Gente de Borgata, Suarez, tutte quelle persone che lo senti che ci siamo ascoltati gli stessi dischi e abbiamo fatto quel percorso. C’è un senso di comunità e di appartenenza. Anche noi siamo cresciuti con gente come Supremo73, poi, però, abbiamo preso strade simili, ma differenti.