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Coez – Non erano fiori (recensione)

Coez - Non erano fioriUno dei più grandi luoghi comuni del rap è che con il passaggio in major ci sia automaticamente un cambiamento radicale da parte di un artista e in tutto questo c’è un fondo di verità. Fabri Fibra dopo il grande salto ha alleggerito in modo considerevole il suo vocabolario per arrivare a più persone, come il trio HipHop più famoso di Milano è passato dai brani di denuncia sociale alle hit estive dedicate ai videogiochi e in tutto questo non c’è nulla di male se dopo la transizione dall’underground al grande pubblico l’integrità artistica rimane intatta, mi spiego meglio: i Dogo non sono più quelli di “Mi Fist”, ed è palese, ma ascoltando qualsiasi traccia degli ultimi lavori è sempre presente un elemento riconducibile a loro, come una sorta di impronta digitale, e lo stessso vale per Fibra.

Perchè di tutta questa lunga premessa? perchè in “Non erano fiori”, album che ufficializza l’ingresso di Coez nel mondo del mainstream, di Coez (quello conosciuto con i Brokenspeakers e apprezzato con i brani “Nella Casa” e “Sono Stanco”), non è rimasto nulla. Penso che sapersi evolvere musicalmente sia indispensabile per un artista, e che mantenere negli anni lo stesso stampo musicale non sia conservazione, ma piuttosto un limite.

Va detto però che i cambiamenti è giusto che siano graduali: tanti artisti, arrivati ad un certo punto della loro carriera, si sono ritrovati stretti i panni del rapper e si sono avvicinati al mondo del canto ma l’hanno fatto step by step, e magari sono io troppo malizioso, eppure, non appena Silvano ha firmato il contratto con la Carosello Records c’è stato il cambiamento artistico. Se nel 2009 Coez era “Figlio di Nessuno” nel 2013 è “figlio di nessun genere musicale”, perchè ora la sua musica è lontana dal rap di Bassi Maestro e dal pop di Andrea Nardinocchi, è una sorta di ibrido quasi impossibile da classificare ed è difficile dire se questo vada a suo favore o meno.

Ma parliamo del disco: un album composto da dieci tracce dove il rapper (ormai ex) romano snocciola le sue strofe sulle strumentali del bravo Riccardo Sinigallia, musicista che ha collaborato con diversi nomi noti della musica italiana come Max Gazzè e Niccolò Fabi. Queste dieci canzoni sono dieci modi diversi di Coez per parlare di una cosa sola: la fine di un amore, e lo fa spaziando tra canzoni festaiole ed orecchiabili come “Hangover”, “Siamo morti insieme”, “Forever Alone” passando dalle malinconiche “Ali Sporche”, “Vorrei portarti via”, “Lontana da me”, “Non erano fiori”, “La strada è mia” all’energica “Oh No!” arrivando ad episodi al confine del “emo” come il brano “Dramma Nero”. I suoi testi mantengono quasi sempre la stessa struttura metrica dell’A-B-A-B mentre a livello di contenuti qualche verso è degno di nota (“Ho le tasche vuote come le persone”, Grazie per tutti i vostri consigli, posso sbagliare da me) che a volte si ha come l’impressione di poter ritrovare l’artista che abbiamo imparato a stimare dal disco “Fino Al Collo”.

I tappeti sonori sono tutti riusciti, suonano moderni ma soprattutto originali, cosa che non si può dire del cantato di Coez: in alcuni episodi la sua melodia è quasi ripetitiva, tanto che alcune tracce le distingui solamente per la diversità delle rime.

Concludendo questo non è un disco rap, i fans che l’hanno sempre seguito dai tempi della sua super strofa di “Acqua alla gola” sono avvisati, ma non mi sento neanche di classificarlo come un disco pop: questo prodotto è semplicemente il debutto di Coez come cantante sotto un’importante casa discografica, e mi dispiace dire a Silvano che per questo suo esordio quelli lanciati dalla tribuna sul palco, purtroppo, questa volta, non erano fiori.

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Francesco Theak

 



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