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Climate Social Camp: i giovani scendono il campo per difendere il pianeta

In estate migliaia di ragazze e ragazzi sono scesi in piazza a Torino per cercare di rimediare agli errori che abbiamo commesso in passato. Una generazione di cui andare orgogliosi 

Giovani del 
Climate Social Camp scesi in piazza per difendere il pianeta

Dal 25 al 29 luglio a Torino si sono ritrovate centinaia di giovani attivisti e attiviste per il clima per parlare di cambiamenti climatici, crisi ambientale, giustizia sociale, guerra e uguaglianza. Dibattiti, workshop, mobilitazioni, concerti e momenti informali: tutto questo è stato il Climate Social Camp organizzato da Fridays For Future.

Noi di Italia Che Cambia c’eravamo, abbiamo partecipato a diversi incontri e parlato con i ragazzi e le ragazze che, numerosissimi, hanno riempito i prati del parco della Colletta con tende e sacchi a pelo, rispettosi dell’ambiente che li ospitava e pronti a confrontarsi e conoscersi. Erano infatti molte decine – alcune delle quali provenienti dall’altra parte del mondo – le associazioni e le sigle che hanno risposto alla chiamata.

Tanti anche i temi sul piatto: dalla siccità che sta attanagliando anche l’Italia alle conseguenze politico-sociali dei cambiamenti climatici a livello globale, in particolare nel sud del mondo. Dai modelli di produzione sostenibili – come l’agroecologia e l’agricoltura di prossimità – a quelli da smantellare, agrindustria e caporalato fra tutti.

Si è parlato dell’utilizzo consapevole delle risorse idriche grazie agli interventi di alcune associazioni che si battono per l’acqua come bene comune e per la tutela di fiumi e laghi in vari punti del territorio italiano. Ma il microfono ha dato voce anche ad attiviste di paesi lontani che hanno denunciato ciò che sta accadendo da loro.

«In questo mondo noi popoli indigeni non abbiamo alcun potere. Siamo costretti a lasciare le terre di cui siamo custodi e a emigrare nelle città, dove non ci attende una vita facile con le stesse prerogative degli altri», ha dichiarato l’indonesiana Michellin, mentre Patience, attivista africana, ha raccontato della battaglia contro il progetto del mega oleodotto che è in corso lungo il confine fra Uganda e Tanzania.

La portata globale del problema è emersa in maniera limpida quando sono stati messi sullo stesso piano il debito finanziario contratto da tanti Paesi del sud del mondo e il debito ecologico dell’occidente. In certi angoli del pianeta la devastazione dovuta alla crisi ambientale ha ormai reso la vita umana pura lotta alla sopravvivenza. Ed è ora che c’è ne rendiamo conto.

METTERE AL CENTRO IL CLIMA

Ma il Climate Social Camp non è stato solo parole e pensieri. C’è stata anche azione. Nella giornata di chiusura dell’evento, gli attivisti hanno fatto sentire le loro voci per le strade di Torino. A guidare la folla è stato un martello gonfiabile che ha voluto indicare la rottura verso il sistema politico ed economico che ha contribuito agli effetti della crisi climatica e sociale che vediamo oggi.

Tre gli obiettivi presi di mira. Il primo è stata Intesa San Paolo, una delle banche maggiormente coinvolte nel finanziamento dell’industria fossile. Una seconda azione di protesta è avvenuta contro la Snam, il principale operatore europeo nel trasporto e nello stoccaggio di gas naturale. Il terzo obiettivo infine era la sede della Collins Aerospace, da sempre riconosciuta come eccellenza nella meccanica di precisione nell’ambito dell’aerospazio. Lo scopo? Fare luce sul campo della microtecnica per parlare nuovamente del rapporto tra guerra e i temi legati alla giustizia climatica.

L’unica nota stonata, alcune critiche piovute addosso ai ragazzi, accusati di qualunquismo, di incoerenza, di essere lì solo per “fare baldoria”. Eppure questa è la prima generazione che si attiva concretamente per salvare il pianeta, dopo che tutte quelle che l’hanno preceduta hanno tentato – e lo stanno ancora facendo – di distruggerlo. Quelli che sono scesi in piazza a Torino sono i nostri figli e le nostre figlie e stanno soltanto cercando di rimediare agli errori che abbiamo commesso noi. Dobbiamo essere orgogliosi di loro.

A cura di Francesco Bevilacqua 



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