Claver Gold – Melograno
Scendevano fiocchi di neve leggeri quando ho conosciuto la poesia ruvida di Claver Gold grazie a “Mr. Nessuno”, un disco che spesso riascolto con grande piacere quando ho voglia e bisogno di raddrizzare la schiena. Le fredde lame che un venerdì sera hanno trafitto l’arancio velato di questo novembre 2015 non hanno esattamente creato l’atmosfera migliore per aspettare un disco nuovo, ma la musica è forza e mercurio vivo e mai come ora abbiamo bisogno dell’amaro in bocca di Claver per ridare tono al nostro scolorito vermiglio autunnale.
Il “Melograno” arriva così, aspro e rosso come i suoi semi e la sensazione è quella del sollievo cercato dalle dita lungo una tazza di caffè bollente quando il freddo sferza in faccia. Un disco che fa dell’empatia la sua forza collocando la dimensione personale sgomitolata da Claver sul palco sospeso del momento che stiamo vivendo, forse perché in fondo siamo tutti un po’ melograni dalla dura scorza esterna, ma dal magenta di emozioni nel profondo del petto. Scusate, ma da quando Kendrick è diventato tenente tenerone e professa peace & love a destra e manca mi sono fatto prendere la mano anche io.
Ho la fissa per quei dischi che dipingono un mondo interiore, che ti lavorano sui fianchi e pennellano stati d’animo. Claver Gold ci riesce perfettamente con pezzi legati tra loro dal filo degli alti e bassi di uno spaccato di vita lungo due anni. Cocci di un’anima di ceramica messi insieme dall’arte onirica di KINTSUGI – talentuoso duo di producer bolognesi che ha modellato tutte le strumentali del disco. In Giappone il termine kintsugi (金継ぎ) indica l’antica arte di “riparare con l’oro”. Metallo prezioso e incandescente le note, che saldano e tengono assieme i frammenti casuali narrati dal rapper ascolano donando nuovo splendore. Che figata.
Il Disco – Scansione
Nelle strofe di Claver, che hanno il sapore dell’esperienza e il peso di una metrica invidiabile (si perde il conto di incastri e citazioni), trovano spazio nebbia, rabbia, malinconia e l’ermetismo delle delusioni. Il Melograno non è un disco triste, narra di amore e di donne (pensa, l’idea stessa è nata partendo dal concetto di fecondità femminile rappresentato in molte culture proprio con un melograno), di storie, di intrecci e passioni. Se “Anima Nera” ha anticipato il disco ricordandoci il marchio più classico di Claver e “Raccoglievo le More” è una dolcissima melodia d’infanzia dedicata alla vita, “Non Ero Io” spezza completamente il flusso lungo raffiche di coscienza in extrabeat. Spiccano forte le katane funerarie di “Lady Snowblood” (in una pazzesca fusione lirica-strumentale) come l’ode alla pioggia e alla diversità della carichissima “Rain Man”. In un disco che annega nel personale e rinchiude nel brano “Backstage” strofe dirette al mondo del Rap, sono forse i selezionatissimi featuring che non sono complessivamente all’altezza dell’insieme. Troviamo il reggae Anansi (Sogni), Mole della poliedrica band Maci’s Mobile (il ritornello di “Un Caso” non convince – troppo distante e slegato), il rapper marchigiano ElDoMino nella caldissima “Carmela” e Angie in “Quanto t’Amo”. Parole a parte vanno poi spese per la chicca fenomenale in forma di storytelling di “Nazario”, brano dedicato al fenomeno così denso e armonico che anche se non sei interista come me esci al freddo in calzoncini e ciabatta deFonseca, tunnel ‘ccezionale al cane ed esultanza sotto la Nord (aka tua madre alla finestra che non sa più dove nascondere le domande) esattamente come segue (uguale uguale):
Zeitgeist & Fotografie
In conclusione, recitando le parole di Murubutu, il Melograno è un lavoro che “restituisce dignità a un genere che fatica tanto ad affrancarsi dagli stereotipi”. Non potrei essere più d’accordo avendo tra le mani un disco che fa scintille per qualità di scrittura e produzione. Mi piace molto pensare all’idea che anche la musica possa riflettere lo spirito del tempo, ma qui stiamo parlando di un disco singolo nel mare dei suoni. Il Melograno, però, è in definitiva un mix di fotografie in bianco e nero dello spirito di un momento (o dei momenti) che tutti noi abbiamo vissuto e ci accompagnerà ancora con più empatia, quando le bucce dei mandarini saranno in bilico sui caloriferi e la neve avrà ormai fatto capolino.