Ci stiamo stancando di tutto questo…
Stiamo vivendo un’epoca storica nell’hip hop italiano. Non sarà certo la golden age del movimento, ma si può dire si stia avvicinando a grandi passi per essere ricordata come tale: è tanto ormai che il rap è il genere più discusso nel nostro Paese e solo il tempo ci dirà se da moda passeggera sta ponendo le basi per diventare un reale fenomeno sociale. È certo che quest’epoca sottaccia un certo malcontento: la situazione che si è venuta a creare non piace a molti tra addetti ai lavori, giornalisti o presunti tali e artisti stessi. Non va bene, non va bene che la popolarizzazione del rap in Italia –evento di per sé più che benefico per il movimento- dimentichi le sue radici, abbandoni il suo zoccolo duro, si appiattisca e perda alcuni dei suoi significati più importanti. La domanda è questa e ognuno di noi può solo ipotizzare la risposta, scevra di qualsiasi tipo di certezza: l’hip hop italiano ha posto qui le basi di una presenza costante e certificata nella società italiana? E, allora, può permettersi di perdere tutti gli amanti del giorno zero, quelli che bazzicavano le jam e ne amavano il fattore aggregativo? Può preferire l’apparenza, l’ostinata ambizione al video ufficiale, gli instore e i firmacopie anziché il messaggio –vero motore trainante di questa cultura- e la reale sostanza del codice che muove tutti noi amanti dell’hip hop?
Si sa, senza radici forti anche il più forte albero rischia di crollare. E allora, quali sono le basi di ciò che si sta ora vivendo nel rap italiano? Ovvero, chi ha seminato tutto ciò? Chiunque si avvicini ad una passione ne viene rapito, dunque inizia a studiarne la storia, i movimenti che l’hanno preceduta: è naturale, spesso magari anche inconscio, rispettare e imparare da chi ha contribuito a creare e muovere i primi passi. Non c’è un calciatore che non abbia mai cercato di imitare Maradona, tanto meno un cestista che non abbia mai rivisto scontrarsi Jordan e Malone nell’epica finale NBA del 1998. Insomma, prima di impugnare il microfono per scandirlo in quattro quarti, è quanto meno doveroso conoscere il messaggio tramandato, non solo dai più bravi, ma soprattutto da chi ne ha conosciuto tutte le epoche, non solo il luccichìo di questa. Quel messaggio è fatto di poche, semplici regole non scritte. Ultimamente invero poco assecondate: il giusto tributo morale verso le basi di questo movimento è doveroso, si rischia di innalzare un palazzo senza le sue fondamenta. E se il rap scomparisse dal mainstream tra qualche anno, dopo aver perso anche il suo bastione? Se non dovesse andare bene questa parentesi, insomma, ci stiamo preparando per la più dolorosa caduta negli abissi del dimenticatoio.
È per questo che a un po’ di noi questa situazione sta stancando: lo avverto dalle parole di molti artisti, quelli che più degli altri hanno conosciuto tutte le fasi dell’underground italiano e adesso, a ragione, rivendicherebbero di farsi portavoce di questo successo, ma solo perché hanno contribuito a crearlo. Non ci sarebbe stato l’Hip Hop Tv Birthday senza l’Hip Hop Village, non avremmo mai avuto il piacere di conoscere Emis Killla se i Sottotono o Neffa non avessero spaccato le classifiche. Ad Hip Hop Tv non si è mai fatta la storia, perché chi ama questa cultura sa che la storia non la fanno i numeri o i palazzetti pieni, ma le sfide di freestyle in strada, le jam, ma anche momenti di aggregazione che respirassero pace, amore e divertimento.
È inevitabile che questo scritto prenda piede dopo la massiccia condivisione dell’articolo di Caporosso, in cui Wad s’immaginava uno Spit indietro nei tempi, ambientato al 1995 (come se allora i rapper non si sfidassero mai, in freestyle). Questo è il culmine di una serie di articoli piuttosto fuori luogo, presi di mire da diversi mc italiani, in cui Wad si svincolava dalle critiche di haters e underground-wannabe con un sarcasmo spocchioso da io sono io e tu non sei un cazzo. Nell’ultima sua pubblicazione non sono gli errori –seppur gravi- in sé (scambiare Deda per Carrie D, oppure non conoscere la Minamò di Dj Lugi) il punto del discorso, ma il fatto che debba essere lui a rappresentare il giornalismo rap in Italia. È lui ad aver riferito a decine di migliaia di ragazzini che quella dell’Hip Hop Tv Birthday fosse la rappresentazione della golden age dell’hip hop italiano, quella dei grandi risultati. È lui ad accettare la considerazione che che negli anni ’90 ci fossero rapper scarsissimi. È lui, volente o nolente, il più condiviso e letto. Non posso dunque che augurarmi che si annullino tutte queste condivisioni, seppur in maggior parte critiche verso la sua penna, e si pensi a leggere di più gente serissima. Gente che conosce a menadito tutte le dinamiche del rap italiano, che si è infangata nell’underground più profondo per studiare tutte le realtà della penisola e che sa riconoscere il vero, le radici di questo movimento. Senza dover scomodare grandi penne come Ivic, Colasanti, Gricinella, Pipitone o Nerattini che dall’alto della propria conoscenza mai si permetterebbero atteggiamenti ingiustificatamente spocchiosi, mi riferisco ai veri giornalisti, ma mai realmente ritenuti tanto influenti quanto Caporosso. Come possono essere Marta Tripodi, Filippo Papetti, Davide Agazzi, Andrea Cortellari, Toni Meola, Stefano Zanoni, Costanzo Reiser, Nicolò Arpinati, Koki, i ragazzi di RapManiacz o noi del vecchio gruppo di Moodmagazine, ora in myHipHop.it, ovvero Giovanni Zaccaria, Robert Pagano e Nicola Pirozzi. È quando accetteremo che queste voci hanno più coscienza e voce in capitolo che anche il movimento giornalistico hip hop italiano potrà diventare meritevole di rappresentare un genere davvero mainstream.