Alla scoperta del Chin festival: un viaggio nel cuore delle tradizioni tribali
Il montuoso stato Chin a metà del 1500 fu conquistato dai birmani e a fine 1800 dai britannici ottenendo l’indipendenza solo nel tardo 1974. È circondato a sud-ovest dal Bangladesh, nel nord dagli stati indiani come il Manipur e verso occidente dal Mizorem.
La sua capitale Hakha insieme a località come Mindat, Kampalet, Matupi e lo stesso Mount Victoria sono il cuore pulsante dello stato e caratterizzano il paesaggio con catene montuose, colline verdeggianti a tratti sabbiosi, dove le poche vie di comunicazioni e reti stradali iniziano a farsi spazio per incrementare il turismo, tenuto distante fino a circa una decina di anni fa e che mantiene alcune limitazioni per ovvie ragioni.
È abitato dai Chin (chiamati anche Mizo), popolo birmano-tibetano migrato dalla Cina un tempo animista, e ancora oggi non è raro incontrare persone diventate sciamani alle quali vengono attribuite qualità divine o soprannaturali. Questo grado di identificazione tra principio spirituale (anima) e aspetto materiale li porta a compiere riti sacrificando animali e rendendo così, ad esempio, onore alla nascita del figlio maschio appendendo, successivamente, la testa dell’animale sulla porta di casa e bruciando le ossa che saranno seppellite in un cimitero di pietra. Tuttora un buon 70% della popolazione è cristiano a causa di una storia di predicazione da parte dei missionari battisti.
Il loro isolamento li ha salvati dalle dominazioni medievali di Bagan o da parte di altri regni ma non dalla famiglia reale. Difatti era consuetudine che i reali potessero sposare chiunque volessero in qualsiasi momento, per puro capriccio. Le donne Chin erano ritenute bellissime e per questo desiderate dai principi, quindi si diffuse la pratica di tatuarsi il volto nel tentativo di deturpare la propria bellezza Quei tatuaggi, disegnati sui volti delle bambine tra gli 11 e i 15 anni scatenarono l’effetto contrario, e diventano a tutti gli effetti dei segni distintivi di bellezza per ogni donna Chin della vecchia generazione determinando, così, tribù e provenienza del villaggio. Le donne Munn hanno il viso tatuato da una serie di anelli concatenati tra loro raffiguranti mezze lune che partono dalle guance e scendono giù per il collo; le donne Dine hanno il viso occupato da centinaia di piccoli punti; mentre il tatuaggio sul volto delle donne Makan assomiglia più ad una ragnatela. Questa pratica non è più in uso, è stata abolita dal governo birmano dal 1961 e ora è in via d’estinzione.
Ogni anno, il 20 febbraio, lo stato Chin commemora la lotta solidale da parte del popolo Chin contro il sistema feudale, il colonialismo e l’imperialismo. Difatti, dopo l’indipendenza birmana dagli inglesi nel 1948, i Chin furono costretti a testimoniare mediante un rappresentante esponendo le lunghe sofferenze inflitte loro da parte dei capi ereditari feudali, quegli stessi capi che oltre ad imporre pesanti tasse sulle persone comuni del Chin, impedivano loro di avere un’eguale rappresentanza nel corpo legislativo e di godere dei diritti democratici fondamentali. Questa perdita di diritti ha comportato la conseguente guerra civile nel paese. Per raggiungere una soluzione pacifica, le nazionalità birmane hanno tenuto una conferenza a Tauggyi nel 1961 e hanno adottato risoluzioni per riformare il paese in un’autentica federazione, promettendo diritti democratici, pari rappresentanza e uguaglianza e giustizia in tutti gli aspetti. Tuttavia, la volontà delle nazionalità non birmane di stabilire un autentico federalismo fu distrutta quando l’esercito organizzò un colpo di stato il 2 marzo 1962. Nel frattempo, la gente del Chin presentò un ulteriore suggerimento al regime militare per la costruzione di una vera e propria federazione. Il regime non solo ignorò i loro suggerimenti ma rispose con arresti, torture, persecuzioni e uccisioni. Sotto il regime militare i Chin non solo persero i loro diritti umani ma subirono la distruzione della loro tradizione, cultura, letteratura e costume. Questi eventi hanno portato alla formazione del Fronte Nazionale, nel 20 marzo 1988, che punta a rovesciare la dittatura militare, a garantire i diritti nazionali e ad elevare le condizioni economiche, politiche e sociali della nazione stessa.
L’organizzazione di questa festa nazionale da parte del Fronte Nazionale e del governo dello stato di Chin a Hakha è una pietra miliare storica per la nazione, poiché segna l’approvazione del riconoscimento del “Chin National Day” come festa ufficiale. Festa dove è possibile vedere di tutto. Poco dopo l’alba i bambini e giovani, dopo essersi radunati nei cortili delle scuole, sono pronti a dirigersi verso la fiera, nella piazzetta comunicante con il mercato locale.
Una fila di bambine vestite da longy (vestito nazionale) multicolore intrecciati nelle vivaci strisce del Chin attraversate da fili d’argento scintillanti prendono parte timidamente alla parata. Lo stesso fanno i bambini con la differenza che possiedono una doppia cintura di pelle stretta in vita che regge il longy e fornisce al contempo un fodero per il tradizionale coltello a lama larga del Chin. Gli uomini non sono da meno: indossano una bandoliera di conchiglie di ciprea sulle spalle e intorno alla loro fronte un copricapo dal quale spuntano piume d’aquila.
La parata racchiude centinaia di famiglie che marciano con i loro volti colmi di eccitazione e allegria. Emozioni così forti che non riescono a contenere e che cercano inevitabilmente di intrappolare, di racchiudere in una foto scattata con il cellulare. Foto che conserveranno per sempre. Una volta dentro il campo da calcio, sempre in fila, prendono parte ad una sequenza ordinata e disposta di fronte al palcoscenico e ai pochi anziani intenti a riposare sulle sedie di plastica.
Donne, anziani, bambini, uomini tutti uniti tra di loro per festeggiare, per rendere onore ai loro rappresentanti. Gli stessi gentili rappresentanti che saliti sul palco intonano l’orgoglio, la continuità della cultura Chin, l’istruzione e i miglioramenti della sanità.
Le donne Chin, tra cui spiccano le donne Munn, Makan e Dine scorrono intorno alle persone trovando un posto più appartato, riconoscendo serenamente la loro notorietà, prestandosi e improvvisandosi modelle per una foto. Sciolte le righe, attenti e allegri caricano i proiettili nei loro fucili di calibro pesante fatti in casa per poi essere scaricati verso il cielo, quasi volessero bucarlo per rendere onore alla festa e al sentimento che batte forte come l’insistente gonfiore dei tamburi circonstanti. Nuvolette di fumo prodotte dai fucili e dalle numerose pipe degli anziani locali, inducono gli altri a lasciare l’area del discorso per dedicarsi agli stand che circondano il campo da calcio dove ogni possibilità di saziare lo stomaco è possibile grazie al tè offerto, ai bastoncini fritti e unti dall’olio, alla frutta o agli immancabili piatti di noodles.
Iniziano a prendere parte cerchi lenti di ballerini tribali che battono e si attorcigliano al ronzio di tamburi di pelle coreografando armoniosamente danze del sacrificio e del rinnovamento insieme ai loro pugnali, tramandati di generazione in generazione, di padre in figlio. In quegli stessi cerchi circolano sorridenti e attente queste piccole donne Chin dai volti decorati da tatuaggi blu. Sorridono, con gli occhi persi per le rughe della loro età, sollevando verso la bocca di ogni persona appartenente alla tribù, generalmente Munn, il Khaung Yay, vino di miglio fermentato. Vestite in camicia bianca, longyi rosso e copricapo piumato si strattonano gentilmente, sogghignano con i loro denti e labbra arrossati dal pan che masticano di continuo, stringendosi e danzando a ritmo sincopato.
Lasciano per ultimo le competizioni tradizionali e moderne come le partite di calcio, il tiro alla fune e il palo della cuccagna. I partecipanti sono per lo più giovani ragazzi che con il sorriso ed inesauribile energia si apprestano a gruppi di quattro persone a raggiungere “la cuccagna” cercando di scalare il palo di bambù, precedentemente oliato a dovere. Un’azione per la quale ogni aiuto è positivo per la scalata e anche la terra sotto ai loro piedi si rivela preziosa per seccare mani e corpo rendendo il palo meno scivoloso. Una preparazione che diventa un’intrepida attesa che porta lo spettatore locale e straniero a tenere il volto verso l’alto aspettando speranzoso l’esito, prendendo così parte alla massa che urla e incita i partecipanti.
Ed è così che giochi come questi ricordano i giochi tradizionali popolari che si praticavano una volta all’aria aperta, nelle piazze e nei cortili. Erano dei semplici passatempi che richiedevano destrezza, abilità ma anche tanta fantasia. I giochi non richiedevano un dispendio di soldi e tutti vi potevano partecipare. Il comune denominatore tra i giochi di una volta e quelli che caratterizzano il Festival del Chin è il favorire la socializzazione e lo stare insieme anche per fasce d’età diverse. Gli adulti insegnano le regole dei giochi e i bimbi, i ragazzini le applicano, imparando a costruire e ad ingegnarsi ricorrendo ad ogni tipo di materiale tra scarti di legname, stoffa e carta.
È un evidente bene che dopo 70 anni un festival di questo calibro riesca a connettere tutte le tribù locali, tutte le etnie provenienti da tutta la Birmania, con i loro costumi, religioni e tradizioni, e al contempo richiami l’attenzione di persone da ogni parte del mondo con il solo intento di valorizzare i veri valori della vita, quegli stessi valori come l’amore reciproco, la condivisione del tempo e il rispetto per il prossimo. Valori che qui, a Mindat, non accusano il peso del tempo ma anzi li arricchiscono.
A cura di Anna Elisa Sida
Foto di Matteo Maimone
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