Art of Hashishin

Charas: il primo concentrato della storia

Charas: il primo concentrato della storia

La Charas può essere definita come una sostanza psicoattiva ottenuta strofinando delicatamente a mano i fiori femminili ancora presenti sulla pianta di cannabis per raccoglierne la resina.
 L’atto di raccogliere la resina è nato sicuramente quando i nostri lontani antenati sono entrati per la prima volta in contatto con la pianta di cannabis. Non conosciamo con esattezza il posto dove è nata questa pianta per via della sua precoce diffusione in epoca preistorica e della sua capacità di adattarsi alla maggior parte delle condizioni geografiche e climatiche; tuttavia esistono tre probabili luoghi di nascita: la Cina, le valli dell’Himalaya e l’Asia centrale.

«Ci sono prove evidenti che gran parte della nostra evoluzione in quanto uomini ha avuto luogo in Africa e che l’Europa e l’Asia siano state popolate dall’umanità circa 1.8 milioni di anni fa, dopo centinaia e centinaia di migliaia di anni di migrazione dal Sud Africa a tutto il continente euroasiatico». Perciò è probabile che l’incontro tra i nostri antenati e la cannabis sia avvenuto quasi due milioni di anni fa. Ad ogni modo, la datazione della scoperta della cannabis non è così importante ai fini di questo articolo come invece è il reale primo contatto fisico con la pianta.

È letteralmente impossibile raccogliere semi o fibra dalla pianta di cannabis senza ritrovarsi uno strato di resina sulle dita. Il primo concentrato “nacque” con questo primo contatto e in un futuro lontano sarebbe stato chiamato Charas.

I raccoglitori esperti, con alle spalle milioni di anni di esperienza nella scoperta delle proprietà medicinali e nutritive di ogni pianta incontrata durante le loro lunghe migrazioni
dall’Africa all’Asia, avranno sicuramente ingerito un po’ di quella resina aromatica per
determinarne il potenziale.

Gli aspetti psicoattivi e medicinali della cannabis sono probabilmente stati sperimentati prima della scoperta delle proprietà nutritive dei semi o della qualità della sua fibra; la fibra di maggior valore nella storia dell’umanità fino alla sua proibizione.

La Charas è la più antica forma di concentrato di cannabis; è il metodo più semplice ed
efficace per raccogliere resina fresca dalle piante selvatiche all’apice del loro periodo di fioritura.

Oggi questo metodo di produzione viene raramente praticato nei paesi produttori di
 hashish ma rimane l’unico procedimento di raccolta utilizzato alle pendici dell’Himalaya, in Bhutan, Nepal e nel nord dell’India laddove il clima tropicale della regione presenta livelli di umidità troppo alti per permettere la setacciatura a secco.

Le proprietà medicinali e psicoattive della cannabis e della sua resina sono conosciute in India da migliaia di anni. La pianta ha anche un ruolo importante nella religione induista, in special modo tra i seguaci di Shiva, “Il Propizio” – sommo yogi, distruttore e creatore di vita, fonte di saggezza – e della sua consorte Parvati, “Colei che abita le montagne” – Dea dell’Amore e della Devozione, celebrazione della femminilità e dell’opposto complementare alla tradizione ascetica di Shiva e dei suoi seguaci.

Charas: il primo concentrato della storia

La pianta è sacra per i devoti di Shiva, quei monaci ascetici ed erratici chiamati Sadhu, tra le cui pratiche è incluso il non avere nella loro vita legami materiali. Essi emigrano verso i molti luoghi sacri in India e Nepal, vivendo per lo più in grotte, foreste e templi, praticando lo yoga, la meditazione e la contemplazione. Vengono rispettati ovunque per la loro santità e austerità. I Sadhu usano la Charas come forma di comunione con Shiva, che credono abbia piantato il primo seme di cannabis sull’Himalaya. Bevono un intruglio di spezie, infiorescenze di cannabis e acqua denominato Bhang e lo combinano con della Charas mista a un poco di tabacco da fumare nel chillum, utilizzando del tessuto di cotone umido per filtrare il fumo. Prima di accendere il chillum i Sadhu intonano i molti nomi di Shiva come forma di comunione con un livello superiore di coscienza e di esistenza.

Per la maggior parte degli intenditori moderni la “Mecca” della Charas è nel nord dell’India, nello stato dell’Himachal Pradesh. Il centro di produzione è costituito da tre valli: Kulu, Parvati e Malana.

La Kulu valley è stata per migliaia di anni un rifugio estivo dal caldo e dalle piogge dei mesi monsonici. La valle del Parvati, più piccola e isolata, è un’antica rotta di pellegrinaggio verso il villaggio di Manikaram e le sue sorgenti termali. Malana, un altro villaggio situato in una remota valle laterale, è totalmente isolato dal resto del mondo. Si 
trova su un remoto altipiano vicino al fiume Malana, a 3mila metri di altezza. Il villaggio è diventato leggendario per la sua Charas, “Malana cream”, conosciuta in tutto il mondo per la sua qualità.

In questi territori la cannabis è cresciuta per lo più spontaneamente dall’alba dei tempi; queste piante sono note per le loro superiori proprietà terapeutiche, caratteristica comune alle piante che crescono a determinate altitudini, tra i 2500 e i 3600 metri. La potenza può essere messa in relazione alla selezione naturale delle varietà selvagge in dure condizioni di montagna e ai raggi ultravioletti, più intensi a quote più elevate (le radiazioni trasformano i terpeni in cannabinoidi). A maggiore altitudine, minore pressione: situazione che influisce sulle persone e sulle piante per via della riduzione della pressione parziale dell’ossigeno. Il corpo umano può adattarsi alle quote elevate mediante una respirazione più veloce, l’aumento della frequenza cardiaca e la variazione della composizione chimica del sangue. Il metabolismo delle piante svolge la stessa funzione di compensazione.

Charas: il primo concentrato della storiaLa Charas era tradizionalmente ottenuta da cannabis selvatica conosciuta come “jungle”; era predominante fino alla fine degli anni ‘60 quando i primi hippie scoprirono queste valli.

Da allora i campi coltivati, chiamati “baguija”, sono aumentati esponenzialmente, così tanto che oggi la maggior parte della Charas prodotta in questa zona è “baguija”. La potenza, i sapori e le peculiarità della cannabis selvatica himalayana sono impareggiabili e la “jungle” sarà sempre la preferita dagli intenditori sia locali sia occidentali. I due villaggi di Tosh e Nakthan, agli estremi limiti della valle del Parvati, erano santuari che rimarranno per sempre nella nostra memoria: la bellezza e l’amore della dea Parvati si percepiscono nella sua valle e nella cannabis selvatica che cresce sotto la sua protezione.

Nell’Himalaya le piante di cannabis maturano dai primi di settembre fino alla fine novembre, ma la cannabis selvatica lo fa prima di quella coltivata, cosicché da quelle parti ci sono due “stagioni”. Solo gli abitanti dei villaggi più alti delle montagne e una manciata di stranieri, che stagione dopo stagione vi si recano, sono a conoscenza dell’alternativa delle coltivazioni selvatiche ancora esistenti e hanno l’esperienza necessaria per raccogliere la resina al culmine del ciclo di fioritura delle piante.

Gli “intenditori che ritornano” affitterebbero una “baguija” e lascerebbero il terreno incolto per permettere alle piante di ritornare al loro potenziale originario. Le piante coltivate di altezze comprese tra i 180 e i 250 centimetri e con ramificazioni, evolveranno in pochi anni fino a diventare steli di poco meno di un metro di altezza e con una singola cima, assomigliando molto di nuovo ai loro progenitori selvatici. Anche la colorazione, il profilo terpenico e l’uniformità delle piante sono cambiati; la cannabis coltivata, che in genere presenta tonalità verde scuro, acquisisce una gamma di colori completa e presenta una varietà di fenotipi e di aromi.

La Charas di più alta qualità, non importa se ottenuta da cannabis selvatica coltivata,
viene chiamata “cream” da tutti gli “aficionados”. La “cream” è rara, e impossibile da ottenere se non ti rechi nei campi e te la produci da solo e/o assumi dei professionisti
locali della Charas da far lavorare sotto la tua supervisione. Un raccoglitore manuale otterrà dai 5 ai 15 grammi di crema al giorno a seconda, principalmente, della dimensione delle mani, dell’esperienza e dell’ubicazione (selvatica o coltivata) della pianta.

Il principio è alquanto semplice: togli le foglie secche, prendi le infiorescenze e le strofini tra le mani con movimenti delicati. Poi ti pulisci le mani di tutta la materia fogliare e
ricominci fino a che uno strato di resina non si accumula sul palmo delle mani.

Quindi fai pressione girando il pollice sulla parte più resinosa dell’altra mano e poi giralo, togli la resina e ripeti la procedura fino a che la mano risulta pulita e tutta la resina si è accumulata sul tuo pollice. Ripeti il procedimento per l’altra mano.

Si tratta di una tecnica molto elementare adattata alle condizioni climatiche, dispendiosa
agli occhi di un occidentale, ma il dono di Shiva è abbondante nel luogo di nascita della
cannabis.

Lo sballo da Charas dell’Himalaya risulta pulito, cerebrale, vibrante, energetico. È in
qualche modo paragonabile al fumare uno strain di Sativa senza nessun plateau ma solo con livelli di coscienza: un’esperienza straordinaria.

marijuana cresce in India

Bibliografia
1. An Archeological and Historical Account of Cannabis in China di Hui-Lin Li, Journal of Economic Botany, Volume 28, pag. 437-448
2. Sharma GK (1979), Significance of eco-chemical studies of cannabis, pubblicato in Science and Culture 45: 303–307
3. Origin of cultivated plants di Alphonse de Candolle (1884)
4. Il più grande spettacolo della terra di Richard Dawkins
5. L’uomo di Giava, resti fossili scoperti nel 1891 da Eugene Dubois a Trinil, Indonesia. Cranio di Mojokerto, scoperto nel 1936 in Indonesia. Datazioni radiometriche suggeriscono che possa avere 1,8 milioni di anni
6. Atharva Veda, 2000-1500 a.C. circa, menziona la cannabis come una delle “cinque piante sacre”
7. UV-B Radiation Effects on Photosynthesis, Growth and Cannabinoid Production of two Cannabis Sativa Chemotypes di John Lydon, Alan H. Teramura and C. Benjamin Coffman, pubblicato su Photochemistry and Photobiology Vol. 46, No. 2, pag. 201-206, 1987

 



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