Cronache da dietro il cancello

Carcere: un tattoo per rivendicare la propria esistenza

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Un tatuaggio è un messaggio che vogliamo mandare e che manderemo per tutta la vita, vuoi per rendere un momento eterno, vuoi per rivendicare un’appartenenza. Si dice che i tatuaggi debbano essere dispari, ciò deriva dall’usanza che avevano i marinai un tempo. Un tattoo al momento della partenza per i viaggi difficili, un altro nel porto di approdo ed infine, il terzo, quando si tornava a casa. Per questo i tatuaggi devono essere dispari, perché quando lo sono, significa che si è a casa, e quindi centrati nel proprio posto.

“Oltre il cancello” ci si tatua con metodi non propriamente ortodossi, si usano i motorini dei walkman per muovere su e giù due aghi legati assieme e che vengono intinti nell’inchiostro delle biro.

In passato vi erano alcuni must che i galeotti si facevano tatuare, frasi che rispecchiavano i tempi ed il sentire. Tra le più ricorrenti: “Chi nella donna crede, galera vede” oppure, “Fino all’ultimo respiro chiederò mamma perdono”. Oggi le cose sono cambiate, seppure permanga l’usanza di tatuarsi in carcere, per sublimare in qualche modo la durezza di un’esperienza che, come il tatuaggio, rimarrà impressa su di noi per il resto della nostra vita.

Ho visto tatuaggi di galeotti con errori di ortografia e lettere sgraziate, di dimensione diversa le une dalle altre e se, quando li vedevo da bambino mi facevano paura perché chi li portava apparteneva a ciò che la società aveva ed avrebbe rigettato, oggi mi fanno tenerezza e credo siano la reazione di chi non ha altro modo per difendersi. In un mondo dove la personalità non è quasi più tollerata lo spirito rivendica il proprio diritto ad esistere.



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