Il carcere e le relazioni famigliari
Queste righe sono per chi ne rimane escluso, termine che non scelgo a caso.
In questi anni ho parlato di molti aspetti della realtà che si trova ad affrontare chi varca la soglia del carcere, mai di cosa spetta a coloro che ne rimangono al di qua e che le porte le varca per andare ai colloqui col detenuto; i suoi famigliari.
Le fasi sono anche qui più di una, come per chi viene arrestato; quest’ultimo entra in prigione prima con il corpo e solo dopo qualche settimana, o mese anche con la testa, poiché i primi tempi ragiona e pensa ancora con le dinamiche ed i parametri che gli erano propri in libertà.
I famigliari si trovano a dover affrontare prima di tutto lo shock dell’arresto se vi assistono, che se nel domicilio avviene alle prime ore del mattino assieme ad una perquisizione, a cui non è mai piacevole assistere, oppure a quello della notizia, solitamente ricevuta senza esserne preparati e se comunicata dalle istituzioni, ovviamente non tenendo troppo conto dell’impatto psicologico che ha su chi la riceve.
Dopo lo shock iniziale segue il panico sia per chi è alla sua “prima esperienza” e non sa cosa fare sia per chi invece ci è già passato e sa cosa gli spetta.
Quello che spetta ad entrambi è una via crucis che ha come prima stazione lo studio dell’avvocato, perché nelle prime fasi immediatamente successive all’arresto nessuno può vedere il detenuto a parte il legale che ha nominato lui stesso presso l’ufficio matricola del carcere, nel caso in cui il detenuto non provveda a nominare un difensore di fiducia, gliene viene affidato uno “d’ufficio” per poter sostenere l‘interrogatorio di garanzia, che sarà dopo qualche giorno dal suo arresto.
I famigliari ricevono dall’avvocato le prime notizie concrete di cosa sia successo, del perché il loro famigliare sia stato arrestato, poiché avendo accesso ai fascicoli, possono leggere le motivazioni del mandato di cattura. L’avvocato si preoccupa anche di chiedere al magistrato competente dell’indagine i colloqui per i famigliari, la cui posizione viene prima valutata dal magistrato stesso che poi concederà il permesso.
Questo per quanto riguarda l’aspetto “tecnico” della questione. Vi è poi un aspetto “sociale” altrettanto doloroso, cioè quello di affrontare una nuova quotidianità, che si può intuire, non sarà piacevole.
Sostenere ed accompagnare un famigliare in percorsi che possono spesso durare anni significa veder allontanare molte delle persone su cui pensavamo di poter contare, ma anche fare uno sforzo economico mai di poco conto, affrontare la “vergogna di mostrare la faccia” a volte proteggendosi con una sfrontatezza di circostanza e provare la paura che al proprio congiunto possa essere fatto del male.
Una specie di calvario che chi deve scalare, scala senza aver commesso nessun reato, ma solo perché è moglie/marito, fratello/sorella o padre/madre o comunque parente di colui che è stato arrestato.
Significa informarsi sui giorni e gli orari dei colloqui, su ciò che è possibile portare nei pacchi che si lasciano al detenuto, significa affrontare le perquisizioni che precedono i colloqui, trovare qualche decina di euro da lasciare al detenuto sul libretto, che gli permettano di acquistare qualcosa sulle liste della spesa, perché l’amministrazione penitenziaria si limita a fornire il minimo indispensabile, e quando si ha un famigliare in carcere non sempre è scontato poter avere anche poche decine di euro.
A tutti coloro che si fanno carico di un fardello così pesante, non neghiamo la nostra solidarietà.