Cannapazza: critica della coltura idroponica della cannabis
Le sostanze che modificano gli stati di coscienza erano chiamate dal Mantegazza “alimenti nervosi” e alcune culture si riferiscono ad esse come al “cibo degli Dei”: si può dire che sono nutrimento per lo spirito? Sicuramente dalla coscienza della libertà prende forma la spiritualità umana e i movimenti di liberazione che ne scaturiscono si giovano da sempre dell’uso di inebrianti e stimolanti per ampliare le possibilità psicofisiche. Da sempre le sostanze psicotrope sono anche importanti strumenti di conoscenza e di convivialità, di maturazione personale e di crescita sociale oltre che farmaci efficaci. Vanno perciò considerate attentamente all’interno dei tentativi di riflessione e azione culturale incentrati sulla necessità di creare una società più umana.
Zucchero, tabacco, caffè, tè, cioccolato, vino, birra e superalcolici, psicofarmaci, morfina, anfetamine, cannabis, cocaina, eroina, psichedelici ed empatogeni vari, sono lo specchio della rovinosa strategia capitalista che sfrutta e adultera tutto ciò che tocca. Nel loro ciclo di produzione e vendita l’alto tasso di schiavitù, inquinamento e sofisticazione chimica ne corrompe ovviamente anche la qualità. Perciò, dal momento che sminuiscono gli effetti desiderabili a favore di quelli collaterali, che impigriscono l’animo umano invece di esaltarne le facoltà e accrescerne i poteri. Inoltre, la particolare alleanza creata dipende anche dal tipo di rapporto, plurigiornaliero od occasionale, che si stabilisce con queste sostanze, implicando un circolo di denaro.
In questo scenario la canapa può rappresentare un’eccezione: è facilmente coltivabile manualmente e non c’è quasi bisogno di trasformazioni per utilizzarla e a differenza delle sostanze prodotte tramite fermentazione, estrazione o sintesi, di canapa se ne può coltivare anche poca. Questo permette di non utilizzare additivi e di partecipare, dalla semina alla degustazione, di una sfera di relazioni abbastanza libere dai vincoli del denaro, dal ricorso al petrolio e ai suoi derivati. Non è poco se paragonato a quanto offre legalmente la società. Quella che segue è una risposta al tentativo d’imbarco della
coltura idroponica sul vascello dell’autoproduzione: un contributo alla sua estromissione.
Le coltivazioni idroponica e aeroponica della canapa rappresentano l’estrema degenerazione: sono sistemi concepiti per massimizzare la resa e superare gli inconvenienti dell’indoor, aumentando il grado di condizionamento umano con surrogati tecnologici che forniscono alle piante il necessario per sopravvivere in un luogo artificiale e deficitario. Il vantaggio è una produzione rapida in uno spazio minore, a ciclo continuo, di cime di cannabis esageratamente potenti. Tutto ciò ha però un costo a livello economico, igienico e sociale. Questo sistema ricalca lo stile brutale del sistema ‘capitalistico’, che porta generalmente all’esasperazione delle pratiche d’addomesticamento che l’uomo mette in atto per soddisfare le proprie esigenze. È una questione di gradi. Un conto è cercare di preparare una situazione ottimale per sfruttare delle piante, rispettandone gli equilibri ecologici e approfittando delle fertili forme di vita del suolo, preservando quel terreno ricco di humus che dona salute, qualità e volume alla canapa. Tutta un’altra faccenda è sostituire all’insieme aperto della vita, il ciclo chiuso della produzione forzata, con prodotti commerciali di origine chimico-industriale, e votatoi alle esigenze di produzione.
Invece di migliorare e semplificare i processi necessari al raggiungimento dei nostri obiettivi nel pieno rispetto della pianta, la coltura idroponica favorisce quasi esclusivamente piantamenti molto fitti, 30 e più piante al mq, abbreviando i tempi dello sviluppo vegetativo e della fioritura, in un luogo reso sempre più asettico per evitare contaminazioni. Le piante crescono prepotentemente perché le radici non incontrano impedimenti durante la crescita: nulla oppone loro resistenza, tutto è progettato per garantire sempre le migliori condizioni. Questo porta sì ad un bell’aspetto estetico, ma anche a debolezza e poca resistenza agli attacchi comuni in questo ambiente.
E’ l’applicazione tecnologica dell’egoistica ignoranza umana, un connubio tra scienza e affari, spinto dalle imprese scientifiche e commerciali, per sopravvivere forzatamente dei vegetali in un habitat anormale.
La pubblicità sulle riviste specializzate, sui internet e la facile reperibilità sul mercato dell’attrezzistica necessaria, rende desiderabile e praticabile un sistema astruso che per le piante è soltanto l’unica possibilità di sopravvivenza. Comunque, a forza di sostituire ogni parte naturale con un’artificiale, quello che si otterrà sarà unicamente della “canapazza” destinata a farci impazzire.
L’interesse per la coltivazione della canapa idroponica (in special modo qui in Italia) è in parte il risultato dello sviluppo di un’attività svolta clandestinamente (indoor: al riparo da occhi indiscreti!) indotta dal proibizionismo. Un altro importante fattore è che il mercato ha bisogno di un prodotto sempre disponibile e in grossi quantitativi, uniformato (stesso gusto, stessa “botta” e stessi prezzi), di pochi produttori e di una massa di fumatori pigri che vogliono varietà standardizzate. La coltura indoor-idroponica, priva dei cicli stagionali, permette un margine d’efficienza maggiore rispetto alla coltivazione tradizionale e soddisfa così i parametri del canna-business. Ma coltivare in questo modo significa diventare un acquirente di semi e di tutto il materiale occorrente (inadatto al fai-da-te casalingo e alla piccola riproduzione e selezione di semi). Implica il diventare di nuovo complice di quel sistema commerciale che in vista del guadagno maltratta ogni forma di vita. Inoltre, sostituire la gratuità della crescita naturale con rimedi a pagamento, diventa dispendioso, in perdita rispetto il calcolo delle calorie messe in gioco (a meno che non vendiate il vostro prodotto e il metro di misura sia il solo denaro e non li propri sforzi). L’idroponica non può mai dare buoni risultati, neanche nella prospettiva “ne voglio tanta, buona e forte” (anche usando prodotti ‘biologici’). Costringendo le piante in una situazione artificiale le facciamo crescere in condizioni anomale e patogene ancora peggiori del tradizionale indoor. Da questo momento la loro vita dipende dall’attenzione ininterrotta di un automatismo che eroga tutto il necessario in una soluzione nutritiva.
La salute delle piante dipende dal mantenimento di certi valori entro una norma – temperatura, grado del pH, livello di EC, quantità di N, P, K, Ca, Fe, Mg, Mn. In natura le piante gestiscono autonomamente le risorse incontrate, preservandole e creandone continuamente di nuove; così come tramite l’attività dei microrganismi, il pH tende generalmente al neutro, la concentrazione dei sali minerali e di altri microelementi (presenti sempre sotto molteplici forme e relazioni) supera difficilmente il quantitativo che ostacolerebbe il loro stesso sostentamento. Invece in un impianto idroponico, il pH dell’acqua deve avere la giusta gradazione per permettere un corretto assorbimento dei nutrimenti; i concimi NPK devono essere in proporzione, nelle fasi vegetativa e di fioritura; l’equilibrio imposto in partenza tende naturalmente a degradarsi (il pH diviene acido, la concentrazione salina aumenta, la temperatura si surriscalda, l’ambiente sterilizzato si ripopola dei soli batteri patogeni) e diventa necessario un’osservazione costante. Per questo l’unica soluzione diviene la completa automazione dell’impianto, con centraline computerizzate per il rilevamento e la correzione dei valori in tempo reale… Il tutto è così assurdo che neanche si prende in considerazione il fatto che un sistema che potenzialmente espone la canapa al rischio di uno “stress idrico e nutrizionale” per cause puramente tecniche è da rigettare decisamente.
All’esterno, certo, ci sono altri problemi, ma generalmente le forme viventi tendono ad accudirsi: ad esempio le erbacce trattengono l’umidità notturna sotto forma di rugiada e con le loro radici permettono alla pioggia di penetrare in profondità e di conservarsi a lungo; favorendo poi la proliferazione della vita nel sottosuolo e aumentandone la varietà, sono la vera garanzia di una canapa in buona salute.
Nella coltura idroponica ogni azione e pensiero è rivolto unicamente alla produzione di THC. Null’altro conta: le essudazioni radicali, che alterano il pH della soluzione nutritiva in circolo sono gestite come un inutile escreto, mentre nel loro ambiente naturale sono un nutrimento importante per i molteplici abitanti del sottosuolo. Batteri, alghe e funghi, semplicemente vivendo producono tutte quelle sostanze che stimolano la crescita della pianta e proteggono il terreno, preservandolo dal dilavamento dei nutrienti legandoli in composti stabili. Al termine del ciclo colturale le radici, una volta secche, invece di marcire, nutrire gli organismi del terreno e renderlo soffice in profondità per le piante future, divengono un incomodo nocivo: se si vuole riutilizzare il caro substrato inorganico, occorre risanarlo con biocatalizzatori! Allora perché rinchiuderla, nanizzarla, accorciarne il ciclo a 3 mesi e renderla dipendente e insufficiente a sé stessa, alla stregua di un malato terminale intubato? Perché irradiarla di luce artificiale, obbligarla a dissetarsi con soluzioni nutritive, far sviluppare le radici in substrati sterili o addirittura nel vuoto? Perché farla vivere costantemente immersa in un campo magnetico? Perché spendere denaro per crearle un ambiente impoverito, inquinante e costoso, quando affidandola alla gratuità del calore del sole, della fertilità del suolo e dell’acqua piovana, della freschezza del vento e della notte si risparmia quasi ogni fatica e il ‘prodotto’ riesce di gran lunga migliore?
Con poche e semplici mosse si riesce a godere dei suoi frutti migliori.
Quello che conviene è piantare in piena terra, dove la pianta possa godersi il sole, la luce della luna e anche il buio pesto, e intridersi di odori sempre cangianti al passare delle stagioni. La canapa migliore si ottiene con piante che salutano i primi freddi dell’inverno: a questo punto i profumi migliorano e acquistano “spessore” – più forti, dolci e pungenti. Qualche gelata notturna e le nostre belle si copriranno di candida resina. In outdoor ci capiteranno annate eccezionali con cime memorabili, così come annate medie e, per fortuna, solo raramente pessime. Coltivando canapa “in pieno campo” si possono ottenere risultati strabilianti per quantità e qualità: tonica, rigenerante, risolutiva, divertente, agitatrice, salubre, singolare, liberante, balsamica, terapeutica, potentemente psicoattiva (che illumina la mente e stimola l’intelligenza), afrodisiaca, rilassante, conciliante, sediziosa…
La canapa coltivata in idroponica rimane invece un’incognita dal punto di vista della qualità dei principi attivi contenuti (tachicardia, paranoie, down) e non conoscono gli effetti a lungo termine. Sottoposta com’è ai continui trattamenti chimici produrre quantitativi esagerati di THC, rischia veramente di “impazzire” (e dare poi problemi al consumatore). Dal momento che i nutrimenti base sono prodotti tecnologicamente avanzati nel prodotto finale ci saranno sicuramente tracce della loro estrazione e raffinazione. Come reagiscono poi queste sostanze al momento della combustione con il tabacco e che effetto fanno sui polmoni?
Inoltre nonostante siano specifici per la canapa, i concimi di sintesi sono molto poveri rispetto ai nutrienti naturali; la canapa idroponica, con la sua alta percentuale di THC, sarà comunque inferiore a una canapa tradizionale dall’alta qualità psicoattiva. Non dimentichiamo che il THC è solo una tra le numerose molecole che, interagendo tra loro, contribuiscono tutte a indurre gli effetti ricercati.
La canapa idroponica è in definitiva un vero bluff per l’autoproduttore, che cerca innanzitutto di uscire dal circuito commerciale per soddisfare le sue esigenze ed eventualmente il reciproco scambio: invece, più deleghiamo alla tecnologia il compito di crescere le nostre piante e più ci allontaniamo dalle risorse naturali, e più inneschiamo e partecipiamo a relazioni mediate dal denaro. Ad ogni livello è possibile osservare che la progressiva automazione conduce alla perdita completa della gratuità e dell’efficacia dei gesti e delle azioni manuali.
La coltivazione idroponica è economicamente conveniente per il coltivatore/commerciante interessato alla vendita della sua merce a un prezzo molto alto, attuabile solo in quanto frutto dell’illegalità del suo commercio o da strategie di mercato. È un inganno per chi mira ad un prodotto fumabile di qualità: i produttori di cannabis indoor/ idroponica non fumano certo quell’erba, ma si riforniscono altrove per soddisfare i propri gusti – charas dell’Himalaia, 00 dalle montagne dell’Atlante marocchino o capolini fioriti di cannabis biologica dalle alpi svizzere!
Francesco Santel
fonte: XXmila Leghe sotto n°9 2008, edito da NAUTILUS