Cannabis light: una legge per criminalizzarla e colpire i commercianti
Il commento dell'avvocato Zaina alla nuova proposta di legge che vorrebbe vietare la cannabis light, tra la volontà di colpire i commercianti e quella di limitare la libertà individuale
Ho avuto modo di esaminare il Ddl n. 437 che porta la dizione “Modifiche alla legge 2 dicembre 2016 n. 242, in materia di promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”, presentato il 21 dicembre 2022, alla Presidenza del Senato, da undici parlamentari di FDI e la sua presentazione.
Rileggendo più volte l’incipit introduttivo ed il testo che si propone a modifica ed aggiunta di due articoli della L. 242/2016, ho maturato la sensazione che i firmatari proponenti la norma, abbiano idee piuttosto confuse sul generale tema della commercializzazione della cannabis light e non siano particolarmente ferrati in materia.
Unica certezza che traspare, è la volontà ideologica di criminalizzare questo tipo di commercio.
Dico questo, senza alcuna avversione od ostilità per questi senatori, quanto piuttosto con grande e seria preoccupazione per l’impreparazione che costoro manifestano, cadendo in affermazioni tra loro confuse e smentite nella prassi quotidiana.
Con ordine.
Inizio per una volta dalla fine.
L’ANALISI DEI DUE ARTICOLI DELLA NUOVA PROPOSTA DI LEGGE CONTRO LA CANNABIS LIGHT
In primo luogo, mi pare di potere dire che questo progetto di legge, che si compone di un articolo che contiene due commi, appare inutile e meramente demagogico-populista.
A) La prima disposizione – quella che introduce il co. 3 bis all’art. 1 L. 242/2016 – afferma che le disposizioni della legge in questione “non si applicano all’importazione ed alla commercializzazione delle infiorescenze della canapa per uso ricreativo”.
Si tratta di una precisazione del tutto inutile. Questo principio, infatti, è stato da tempo stabilito e consolidato dalla giurisprudenza di merito e di rito e dalal dottrina. In entrambi i segmenti giurisdizionali si è addivenuto, dopo un vivace dibattito anteriore alla pronunzia delle SSUU n. 30475/2019, a stabilire che la L. 242/2016 disciplina esclusivamente l’attività di coltivazione della canapa e che la successiva attività di diffusione commerciale del prodotto così ottenuto rimane ultronea a tale complesso normativo.
Al di là dell’opinabilità di tale assunto – giacché all’inizio del 2018 si riteneva (anche da parte di sezioni della stessa Corte di Cassazione) che il commercio costituisse una fase successiva intimamente collegata ed imprescindibile della coltivazione e che, per tale logico motivo, essa dovesse ricadere nel recinto legislativo della L. 242/2016 – pare evidente, ormai che tale rigorosa sopravvenuta separazione non sia revocabile in dubio.
Proprio la pronunzia SSU 30475/19 citata, fornendo una rigorosa interpretazione dell’art. 2 L. 242/2016 e della tassatività dell’elenco delle destinazioni produttive della coltivazione delle canapa legale, ha creato un archetipo che non pare assolutamente avere necessità di ulteriori esplicazioni normative.
In questo elenco non è ricompresa la destinazione della coltivazione di canapa industriale al consumo ricreativo. Ergo, la previsione normativa oggetto del presente esame costituisce una specificazione del tutto pretestuosa ed inutile, ai fini concreti.
Questo, quindi è uno dei motivi che rendono del tutto pretestuosa e superflua la modifica proposta.
B) La seconda previsione – che aggiunge all’art. 4 della L. 242/2016, il co. 7 bis e che prevede, per l’ipotesi di destinazione del prodotto della coltivazione al commercio a fini di consumo personale, in violazione dell’inutile norma sopra indicata (art. 1 co. 3 bis), l’applicazione del T.U. Stup. Dpr 309/90 – appare, non solo di per sé superflua, ma presenta anche un contenuto estremamente generico.
Se, infatti, il commercio di canapa light è pacificamente escluso dal recinto di applicazione della L. 242/2016, è evidente che esso rientra – come, peraltro, già stabilito dalla sent. SSUU 30475/2019 e dalla successiva costante giurisprudenza di rito e di merito – nel contesto della disciplina del dpr 309/90, posto che la canapa contiene un principio attivo (il THC) che rientra nelle tabelle prevsite dall’art. 14 dpr 309/90.
È, poi, altrettanto evidente, che il rinvio generico al complesso normativo riguardante gli stupefacenti, non solo non pare risolutivo (perché non crea, così, affatto, una figura di reato, così come si vorrebbe fare credere), ma si risolve in un’indicazione puramente astratta ed indeterminata. Questo nuovo co. 7 bis non spiega, infatti, quale sarebbe il profilo di illiceità della condotta e non è associato ad una modifica specifica dell’art. 73 dpr 309/90 o di altra norma a questo collegata.
Va, inoltre, rilevata la presunzione e la scarsissima conoscenza della trama giurisprudenziale intercorsa in passato e tuttora in itinere da parte del legislatore. La norma che si intenderebbe proporre non pare in grado di superare lo sbarramento fissato dalle sentenze delle SSUU (30 maggio 2019, 30475/19) del TAR del Lazio (14 febbraio 2023, 2613/2023) e della Corte di Giustizia europea (19 novembre 2020, 663/18).
Si tratta di ostacoli praticamente insormontabili, che, per tale loro intrinseca natura, avrebbero dovuto essere conosciuti ed indurre ad una seria riflessione il gruppo di senatori proponenti il Ddl 437, il quale non può omettere di considerare queste pronunzie. Le arcinote SSUU1, pur stabilendo il generale divieto di commercializzazione di prodotti della coltivazione di canapa, per utilizzi differenti da quelli previsti dall’art. 2 L. 242/2016, facendo espressamente ricadere nell’alveo del dpr 309/90 tale forma di commercio di derivati, ha, peraltro, sancito una clausola di salvaguardia che consiste nella assenza di illiceità del commercio ove “..tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”.
La sentenza del TAR, a propria volta, afferma testualmente che “la limitazione all’industrializzazione ed alla commercializzazione della canapa soltanto alle fibre ed ai semi risulterebbe in contrasto con gli articoli 34 e 36 del TFUE, i quali devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che vieta la commercializzazione del cannabidiolo (CBD) legalmente prodotto, qualora sia estratto dalla pianta di cannabis sativa nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e dai suoi semi, a meno che tale normativa sia idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo della tutela della salute pubblica e non ecceda quanto necessario per il suo raggiungimento. In altre parole, la normativa nazionale di ciascun Stato membro può limitare l’utilizzo delle parti della pianta soltanto se tale limitazione sia strettamente indispensabile a tutelare il diritto alla salute pubblica, purché ciò non ecceda quanto necessario per il suo raggiungimento.” Questa pronunzia raccoglie le indicazioni contenute sia nella pronunzia delle SSUU, che del Conseil d’Etat francese (sent. 29 dicembre 2022 n°444887), sia, inoltre, della Corte di Giustizia Europea relativa al caso KANAVAPE (sent. 19 novembre 2020).
La sentenza n. C-663/18 della Corte Europea sancisce il principio che “uno Stato Membro non può proibire la commercializzazione di cannabidiolo (CBD) legalmente prodotto in un altro Stato Membro qualora estratto dalla pianta di Cannabis sativa nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e dai suoi semi”. Principio all’evidenza ripreso proprio dalla già citata pronunzia del TAR.
La conclusione che si ricava dai riferimenti giurisprudenziali appena operati è semplice e sconcertante al contempo.
Semplice, in quanto i principi astratti che la proposta di legge n. 437 sono già affermati, per quanto concerne la collocazione sistematica nel binario del dpr 309/90 del tema del commercio di canapa light e l’esclusione dell’operatività della L. 242/2016 e come tali appaiono una propagandistica superflua sovrapposizione a quanto già pacificamente sancito.
Sconcertante, poiché i propugnatori della iniziativa di legge proprio non si rendono conto di non avere affatto risolto la questione del commercio della canapa light, attesa l’insuperabilità dei principi giurisprudenziali già menzionati, i quali demandano alla valutazione del giudice rispetto al singolo caso concreto l’accertamento della possibile illiceità della condotta. Le due aggiunte in questione, infatti, non sono idonee a scalfire o modificare la giurisprudenza venutasi a formare.
CANNABIS LIGHT: UNA LEGGE PER COLPIRE I COMMERCIANTI CON SEQUESTRI E PROCESSI
Dunque, nulla muterebbe rispetto al regime giuridico e processuale vigente, se non la formazione di una pesante situazione di cronicizzazione delle indagini penali a carico dei commercianti, destinate, peraltro, a concludersi, seppur dopo iter troppo lunghi e travagliati, in prevedibili ed annunziate archiviazioni od assoluzioni.
Ritengo, pertanto, che lo scopo delle norme proposte sia, in realtà e realisticamente, quello di fiaccare in concreto la resistenza e la volontà dei commercianti, sottoponendoli a sequestri, a procedimenti, a spese per difendersi, a perdite di reddito, limitando le vendita.
E le successive assoluzioni suonerebbero quasi come una beffa. La volontà normativa è, quindi, quella di creare un clima di paura, sfiducia e rassegnazione.
L’ANALISI DELL’INTRODUZIONE AGLI ARTICOLI DELLA NUOVA PROPOSTA DI LEGGE
In secondo luogo, qualche breve riflessione sulla relazione introduttiva. Alcune osservazioni prestano il fianco ad evidenti critiche, posto che appare palese una certa disinformazione in materia.
Ad esempio, in primis sostenere una presunta analogia in bonam partem, costituita dalla presunta estensione anche al prodotto commerciale dell’efficacia dei limiti percentuali previsti dall’art. 4 della L. 242/2016, è gravemente errato. La rigida separazione tra i parametri fissati per la canapa riconducibile alla L. 242/2016 e quelli previsti dal dpr 309/90 è dato giurisprudenziale ormai pacificamente acquisito.
Sia precedentemente alla pronunzia delle SSUU del 2019 (Cfr. ex plurimis ord. n. 8654, 8 febbraio 2019, IV Sez.), sia successivamente (Cfr. sent. 40053, 27 settembre 2022, VI Sez.) è stato univocamente sancito che il limite di THC previsto dall’art. 4 – 0,6% – concerne solo le piante in campo e che il limite drogante della sostanza commercializzabile è, invece, fissato dalla tossicologica forense (non dalla legge come riportato nella relazione) nella misura dello 0,5%.
Dunque questa è la prima grave inesattezza, idonea a creare una falsa prospettiva. In secundis, ci si deve soffermare sulla presunta violazione di norme sanitarie, per l’ipotesi di assunzione per inalazione del prodotto in questione. Mi permetto di osservare, in proposito, che anche questa pare un’affermazione ad esclusivo contenuto populistico e generico, posto che non è supportata da riferimenti specifici. Certamente, se l’idea fosse quella della nocività generale del fumo, allora non si comprende perché il fumo in sé non venga proibito.
In tertiis, i legislatori, pur riconoscendo (a denti stretti) che esiste il limite dello 0,5% (che diversamente da quanto si sostiene non è fissato da alcuna legge, ma accolto tossicologicamente e giurisprudenzialmente) per definire il THC psicoattivo, cadono, poi, in alcuni superficiali ed opinabili luoghi comuni, per tentare di dimostrare la tossicità implicita del prodotto.
a) Gli effetti psicotropi si otterrebbero, comunque, ove si aumentasse la dose dei prodotti consumati.
Si tratta di un argomento estremamente discutibile e inconsistente.
– Chiunque si interessi di canapa e di cannabis sa perfettamente che se una persona intende godere realmente egli effetti psicoattivi della sostanza, acquisterà dosi che contengano una quantità (ponderale e percentuale) sensibilmente superiore di THC (almeno pari al 3%).
– È, poi, evidente che per aumentare l’effetto stupefacente del THC che sia pari o sotto lo 0,5%, l’assuntore dovrebbe consumare una dose di addirittura 5 grammi lordi (per rimanere nell’alveo dei 25 mg. quantità che costituisce la dose media singola). Si tratterebbe di un quantitativo abnorme ed esagerato. Non tenere in conto una simile assurdità ci offre la cifra della preparazione di chi pretenda di legiferare,
b) Per quanto concerne il richiamo al parere del direttore del CNR e del Consiglio Superiore di Sanità, osservo che si tratta di opinioni rispettabili, ma pur sempre opinioni generiche.
A confutazione di questi indirizzi, che si ribadisce peccano di genericità, osservo che la tossicologia forense italiana e mondiale è ferma ormai da qualche decina di anni sul doppio limite percentuale dello 0,5% e ponderale di 5 mg./1gr. Segnalo che, addirittura, taluno come il Prof. Chericoni di Pisa è giunto ad affermare in consulenze tecniche procedimentali che anche 6/7 mg/1 gr. potrebbero costituire il nuovo valore soglia.
c) Il presunto valore rischio è compensato dal valore benessere, farmacologico e palliativo dei prodotti in parola dove è presente sempre un quantitativo rilevante di CBD cannabinoide non psicoattivo.
Tanto è rilevante questa osservazione che si sta tentando di creare un inammissibile monopolio farmaceutico di questi prodotti.
LA LIMITAZIONE DELLA LIBERTÀ INDIVIDUALE
d) Da ultimo, rilevo un profilo che va molto al di là di quello strettamente ideologico che taluno afferma a base della proposta di legge. La volontà del gruppo proponente è quella di dare concreta attuazione a forme di pressante controllo e limitazione sulla libertà individuale.
Uno Stato che vuole “evitare che l’assunzione inconsapevolmente percepita come sicura e priva di effetti collaterali si traduca in un danno per sé stessi e per altri”, è uno Stato che ritiene i propri cittadini meri sudditi incapaci di autodeterminarsi e di comprendere la differenza fra bene e male fra non nocivo e nocivo.
Una visione di invasione della sfera privata, figlia di un indirizzo funzionale a stabilire, ben oltre quelli che sono i limiti istituzionali statali, stili di vita calati dall’alto ed obbligatori.
Un paternalismo di maniera, che, però, non tocca tutti i temi che possono rivelare un disagio sociale, od il vero attentato alla salute, tenendo conto della statistiche su base mondiale, che evidenziano che i veri rischi sono quelli del fumo da sigaretta, dell’alcol e di ben altre sostanze da abuso.
So perfettamente che che molti di quei pochi che avranno avuto la costanza di leggermi sin qui storceranno il naso, ma credo che solo con una opposizione ferma e con un poco di coraggio civile ed onestà intellettuale (quelle doti che difettano trasversalmente ai politici) il pericolo e la deriva di cui questo goffo tentativo normativo è testimone possono essere neutralizzati.
Con tutto il rispetto, più che il sostegno mediatico al singolo processo (e sapete a chi mi riferisco), credo conti realmente una difesa ad oltranza e di gruppo, condotte che impegno davvero.
1“La commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e,in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicché la cessione, la vendita e,in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e7,legge n. 242 del 2016, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”.