Cannabis light: le contraddizioni sull’efficacia drogante
Le considerazioni dell’avvocato Zaina sul tema che tiene in sospeso un intero settore
Nel preparare uno dei tanti processi a carico di commercianti di canapa light e svolgendo una ricerca di giurisprudenza per avere riferimenti aggiornati, ho avuto modo di approfondire il principio sancito dalla Suprema Corte di Cassazione in materia di accertamento dell’efficacia drogante delle sostanze, usualmente detenute per il commercio al dettaglio.
La Sez. VI, con la sent. 15/12/2020, n. 12812 (rv. 281147-01) ha affermato, infatti, che: «In tema di sequestro probatorio, è legittima l’acquisizione di tutti i prodotti a base di “cannabis sativa L” rinvenuti nella disponibilità dell’indagato e destinati alla commercializzazione, in quanto l’accertamento volto a verificarne l’efficacia drogante non va compiuto attraverso l’esame di un campione rappresentativo, bensì verificando ogni singola confezione».
Si tratta di un’indicazione molto precisa, che, purtroppo, sovente i giudici di merito (e gli stessi giudici di rito) dimenticano.
Una simile proposizione sposa in pieno quella tesi che, umilmente, ma con determinazione, lo scrivente ha sempre sostenuto, sottolineando la necessità che l’efficacia drogante non venga legata a una valutazione che involga un compendio globale (composto da più confezioni), ma fotografi la capacità della singola confezione che possa essere posta in commercio.
Se la massima in questione aiuta indubbiamente sul piano metodologico, confermando la necessità che le analisi tossicologiche debbano essere improntate al massimo rigore, non potendo fornire risultati approssimativi, rimangono, altrettanto, indubbi alcuni elementi di contraddizioni, che ad oggi non sono stati risolti neppure dalle Corti apicali.
DATO PERCENTUALE E PONDERALE: LA CONTRADDIZIONE IN RELAZIONE AL THC
Permane, infatti, l’intrinseca contraddizione – generata dalla pronunzia di SSUU 30475/19 – tra l’effettivo valore probatorio del dato percentuale e quello, invero, attribuito, al dato ponderale, in relazione al principio attivo (THC) contenuto nelle sostanze derivate da coltivazione di canapa Sativa L.
Anche in questa decisione il S.C. esclude la valenza di certificati di analisi (prodotti tempestivamente e ritualmente dalla parte), attestanti la presenza di Delta-9-tetraidrocannabinolo in misura inferiore alla percentuale dello 0,5%, in quanto le SSUU hanno escluso la rilevanza di questo – peraltro pacifico – dato scientifico, ai fini di valutazione dell’offensività della condotta commerciale.
I giudici di rito riconnettono, infatti, nella specie, la prova della inefficacia drogante del prodotto, solo attraverso la rilevazione della presenza ponderale di un quantitativo «talmente minimo da non poter modificare, neppure in maniera trascurabile, l’assetto neuropsichico dell’utilizzatore».
Emerge, qui, la irrisolta contraddizione di fondo, frutto di un costante e reiterato recepimento acritico di una tanto infelice, quanto astratta discettazione contenuta nella sentenza delle SSUU n. 30475/19.
In primo luogo, una locuzione quale quella appena riportata esprime un livello di genericità e astrattezza massimo. Una indicazione del genere, disancorata da qualsiasi riferimento di carattere minimamente oggettivo, appare, in tutta evidenza, di difficile comprensione e applicazione concreta. Soprattutto il volere escludere un minimo parametro aritmetico, concernente o percentuale o quantità, rende praticamente impossibile pervenire a un risultato soddisfacente.
In secondo luogo, osservo che, attenendosi strettamente al principio, l’interprete dovrebbe affrontare un ulteriore ostacolo consistente nell’impossibilità di determinare con precisione l’effetto drogante, perché per stabilire tale carattere si dovrebbe tenere conto di importanti variabili soggettive. Tra le principali, l’età del consumatore, le sue condizioni di salute, la sua struttura fisica, il suo peso, il suo stato di assuefazione al consumo, la cadenza dell’uso personale.
Per rispettare con un sufficiente indice di rigore quello che la Corte ritiene il parametro essenziale, ritengo che sarebbe, pertanto, necessario predeterminare l’identikit dell’acquirente. Chiunque comprende che si tratta di qualcosa di assolutamente impossibile, posto il variegato mondo di coloro che fanno uso di cannabis.
In terzo luogo, le varie sentenze (rectius i singoli giudici) non intendono – inspiegabilmente – allinearsi con l’approdo scientifico, ormai univoco, che identifica nella percentuale dello 0,5%,1 la soglia al di sotto della quale sicuramente deve essere esclusa la psicoattività del prodotto e al di sopra della quale potrebbe – non è certo – affermarsi tale effetto drogante.
È notorio che questo parametro sia pacificamente accolto da tutti i tossicologi forensi, sia in Italia, che all’estero. A tale importante genetico riferimento – inspiegabilmente ed apoditticamente snobbato dalle SSUU – si correla piuttosto pertinentemente l’altro canone ermeneutico che concerne il profilo ponderale del THC effettivamente contenuto nel prodotto.
Sotto questo aspetto, la tossicologia forense ha individuato, come limite ragionevole di non psicoattività, un range di peso del THC che va dai 5 ai 7 mg.2. Dunque, appare evidente che al di là di astratte e generiche considerazioni di mero principio, il giudizio in ordine alla possibile psicoattività o efficacia drogante di una sostanza non può prescindere dal supporto aritmetico.
Ecco, quindi, smascherata l’ulteriore fondamentale contraddizione che i giudici non intendono – e non si comprende il motivo – sciogliere e affrontare. Tutti i procedimenti penali in materia vivono un necessario passaggio, che è quello dell’analisi chimico-tossicologica (che assai raramente viene pretermessa).
E allora, perché ostinarsi in elucubrazioni astruse che minano la certezza del diritto?
Forse, perché la soluzione migliore comporterebbe una depenalizzazione di fatto del commercio della cannabis.
1 Fatta salva la teoria dell’assorbimento concreto Lineke, Zuurman e altri riferiscono che dopo che un soggetto ha fumato “circa il 50% del contenuto del THC di una sigaretta viene immesso nel fumo ed un altro 50% del fumo inalato viene nuovamente espirato. …fumare una sigaretta di cannabis da 10 mg provoca una perdita del 50% a causa del riscaldamento che lascia subito 5 mg. Successivamente metà dei 5 mg. inalati viene nuovamente esalata. Infine 2,5 mg. o il 25% della sigaretta da 10 mg. Viene reso disponibile per l’assorbimento nella circolazione sistemica”.
2 Per Chericoni il limite può essere elevato a mg. 7 citando uno studio di CasajuanaKogle del 2016.