Cannabis: una ragione in più perché le assoluzioni diventino non impugnabili
La proposta di rendere non impugnabili le assoluzioni analizzata dall’avvocato Zaina nell’ottica dei processi su cannabis e cannabis light
Siamo in periodo elettorale e non è mia intenzione quella di illustrare credi o manifestare preferenze partitocratiche.
Chi mi conosce e ha la pazienza di leggermi, sa che sono un libero pensatore, che si interessa, soprattutto, di due argomenti: cannabis (e più in generale sostanze cd. di abuso) e diritto.
Sono abituato a prendere e valorizzare gli spunti buoni della politica, da qualsiasi parte essi provengano e, al contempo, però, non lesino critiche a chi, opportunisticamente o ingiustificatamente, assume irragionevoli posizioni di chiusura rispetto a innovazioni e a modifiche normative o giurisprudenziali.
Muovendo da questa premessa sommaria, ritengo del tutto condivisibile la reiterazione della proposta – che spero non sia puramente elettoralistica – di rendere inappellabili le sentenze di assoluzione di primo grado e ovviamente non ricorribili le sentenze di assoluzione pronunziate in secondo grado.
Mi interessa tentare di esporre una connessione fra procedimenti (e processi) in materia di cannabis, assoluzioni e impugnazioni del PM.
CANNABIS, ASSOLUZIONI E IMPUGNAZIONI
È evidente che una pronunzia assolutoria (o di proscioglimento) attesta che il postulato accusatorio, da cui ha mosso l’indagine e il successivo giudizio, si è rivelato infondato. Un castello di carta. È, però, altrettanto evidente la necessità di individuare il momento in cui l’infondatezza si è palesata.
Troppi processi, infatti, si celebrano, anche quando – da tempo – si è palesato la certezza dell’inconsistenza dell’accusa. Venendo al tema dei procedimenti in materia di cannabis e, soprattutto, di cannabis light, la mia quotidiana esperienza mi permette di affermare che l’evidenza dell’infondatezza degli addebiti mossi all’indagato si palesa assai presto.
In materia di cannabis light, sovente, già al momento del primo accesso (presso il commerciante o presso l’azienda agricola) da parte delle forze dell’ordine, viene esibita e prodotta dall’interessato, la prova documentale (certificazioni e documenti fiscali) che i prodotti, oggetto di controllo, sono legali. Si tratta di attività difensiva, che, purtroppo, si rivela vana.
Ciò nonostante, infatti, né gli inquirenti, né i PM, riescono a respingere l’irresistibile tentazione di procedere a sequestri di natura probatoria (talvolta addirittura preventivi!) di prodotti (che si riveleranno legali), per lo più motivati e classificati come riguardanti corpi di reato o cose connesse con il reato.
LA PERIZIA TOSSICOLOGICA COME DATO DECISIVO
Appare, così, chiaro che lo snodo procedimentale decisivo è quello dell’esecuzione della perizia tossicologica, adempimento comune per le indagini concernenti sia la cannabis in senso stretto, sia la cd. cannabis light.
Tralascio le problematiche che insorgono in questa fase, per la cattiva abitudine degli inquirenti di volere procedere alle analisi tossicologiche al di fuori del contraddittorio con l’indagato e la difesa e ricorrendo alla procedura prevista ex art. 359 c.p.p., quasi che l’esercizio del diritto di difesa risulti forma di fastidioso e possibile inquinamento della procedura dalla quale si otterrà il risultato relativo al dato da accertare.
Ciò che mi preme, invece, sottolineare è che nella stragrande maggioranza dei casi gli esiti peritali di carattere tossicologico promossi dal PM sono, invero, favorevoli alla difesa.
È chiaro che in questa situazione, la quale penalizza oltremodo l’indagato, il difensore non deve piangersi addosso e rimanere immobilmente mummificato, quanto piuttosto egli deve “autoinvitarsi” concretamente alla procedura che lo vorrebbe, invece, escludere, perché non tale partecipazione non gli è preclusa o precludibile.
Resta, comunque, il dato in base al quale, gli esiti peritali possono dimostrare e spesso dimostrano:
1. in materia di cannabis, che la sostanza rinvenuta nella disponibilità dell’assuntore è compatibile con la costituzione di una scorta funzionale all’uso personale per il detentore-consumatore e che eventuali piante coltivate possono contenere un principio attivo che renda la piantagione di carattere domestico, quindi, non offensiva;
2. in materia di cannabis light, che la sostanza prodotta o commercializzata è priva di effetti psicoattivi e può essere venduta sul mercato, senza incorrere in sanzioni penali, in ossequio alla deroga prevista – rispetto al generale divieto – dall’ultima parte della massima relativa alla sentenza 30475/19 delle SSUU.
Dunque, al di là di capziose e – spesso – cervellotiche interpretazioni, l’accusa ben prima della conclusione delle indagini preliminari è posta in grado di conoscere il dato essenziale e decisivo, nonché di formulare una prognosi che attesta come la prosecuzione del procedimento appaia inutile, in quanto non potrà portare ad una condanna dell’indagato.
Ciò non di meno, invece, ci si trova dinanzi a citazioni in giudizio (avanti al GUP od al GM a seconda che venga contestata l’ipotesi di reato ordinaria o quella lieve) di colui (o coloro) che, così, assume la veste di imputato.
Si tratta di procedimenti, che rilevo, per la mia esperienza professionale, si risolvono in altissima percentuale in assoluzioni, pur a fronte di richieste di condanne (e talora di pene inusitatamente severe).
Invero, si deve rilevare, che, seppure in pochi, ma significativi, casi è lo stesso PM – spesso incalzato in tal senso dalla difesa – a determinarsi alla richiesta di archiviazione rivolta al GIP.
Ci si deve, quindi, domandare tutto quanto sin qui esposto cosa stia a significare in concreto e quale attinenza esso abbia rispetto alla proposta di non impugnabilità delle sentenze di assoluzione, soprattutto in procedimenti in materia di cannabis e cannabis light. È presto detto.
UNA VERA CULTURA DELLA LEGALITÀ
Manca nel nostro ordinamento una cultura della vera legalità, vale a dire che al di là di proclami di maniera, difetta la capacità da parte dei giuristi di dare valore concreto e non teorico alla legge che sono chiamati ad applicare.
Vale a dire, altresì, che latita la consapevolezza da parte dei magistrati (e dei loro collaboratori) di non essere sacerdoti intoccabili della legge e di comprendere il vero significato ed i limiti delle norme e delle massime di giurisprudenza che si invocano a sostegno delle loro tesi e delle loro azioni.
Vale a dire, anche, che si rileva l’assenza di attitudine degli inquirenti a rendersi conto dei propri limiti di preparazione e della non correttezza di talune loro interpretazioni giurisprudenziali e/o normative.
Vale a dire, inoltre, la triste incapacità di ammettere i propri errori prospettici e di mettere da parte il proprio orgoglio e il convincimento di essere i migliori, pur di fronte a elementi probatori che confutano astratti postulati accusatori che comportano conseguenze notevoli a carico degli indagati.
Un PM, che persiste nel mantenere ancora sotto processo un imputato assolto, impugnando senza nuovi elementi di prova e formulando una dura critica della sentenza di proscioglimento, incentrata solo sul piano della presunta illogicità della stessa, esclusivamente perché il provvedimento gravato disattende (fondatamente) il postulato di accusa e valorizza elementi scientifici favorevoli all’imputato è inaccettabile.
Il PM deve accettare le regole della giurisdizione e non deve attivare strumenti procedimentali residuali, solo per difendere il proprio operato, oltre ogni limite ragionevole.
L’appello o il ricorso per Cassazione non sono strumenti per placare la propria delusione per una sconfitta.
Queste riflessioni costituiscono, così, un’ulteriore ragione (al di là dell’obbiettivo squilibrio fra le parti del processo) per battersi perché dopo l’assoluzione il processo abbia termine, in relazione a qualsiasi reato, ma, soprattutto, nella materia degli stupefacenti.