La canapa per un mondo senza plastica
In un recente studio scientifico i ricercatori pakistani che l’hanno portato avanti indicano proprio nella canapa il futuro della plastica biodegradabile. In queste pagine, prima dell’analisi dello studio, analizziamo la situazione attuale
Anche se facciamo fatica a immaginarlo, l’umanità ha vissuto per millenni senza utilizzare i materiali plastici che oggi sono onnipresenti. Anzi, a guardare come sono andate le cose, si scopre che la plastica che oggi sta devastando il pianeta è un’invenzione abbastanza recente, visto che i primi materiali plastici semisintetici arrivano verso la fine del 1800, aprendo le porte a una serie di scoperte (bachelite, PV, nylon, PET) che hanno cambiato la storia di diverse industrie e quella del nostro pianeta.
Nei primi anni del Novecento iniziano a fare la loro comparsa l’acetato nel 1924, il nylon nel 1936 – prodotto da DuPont – l’acrilico nel 1944 e il poliestere nel 1950 che porteranno la canapa e le altre fibre naturali a essere utilizzate sempre di meno, a partire dal settore tessile. A questo sommiamo il fatto che nei primi del 1900 il petrolio inizia ad avere un interesse prioritario per gli USA, che fino ad allora avevano puntato sul carbone, e l’automobile “green” ideata da Ford nel 1942 rimarrà soltanto una suggestione. Oggi le grandi aziende sembrano fare a gara per sostituire parti plastiche delle proprie auto con canapa e fibre naturali, ma come sarebbero andate le cose se avessimo utilizzato da subito materiali naturali per costruirle e alimentarle?
PLASTICA: DALL’AMBIENTE AL CORPO UMANO
Sicuramente vivremmo in un mondo completamente diverso. Secondo un rapporto del World Economic Forum, andando avanti con questi ritmi produttivi, entro il 2050 la plastica presente in mari e oceani avrà superato in peso la fauna marina. Secondo uno studio del 2015 intitolato “Plastic waste inputs from land into the ocean”, ogni anno nei mari e negli oceani finiscono 8 milioni di tonnellate di plastica. Secondo diverse stime servono in media 2 chilogrammi di petrolio per ottenere un chilogrammo di plastica Pet, che ci mette circa 450 anni a degradarsi; per coprire il fabbisogno produttivo utilizziamo 450mila tonnellate di petrolio la cui lavorazione contribuisce a immettere 1,2 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno nell’atmosfera. Ecco perché la plastica è onnipresente e sono sempre di più i pesci, gli animali marini e gli uccelli che muoiono dopo averla ingerita, trasferendola a noi quando mangiamo loro, o, ormai, anche quando beviamo dell’acqua, sia che arrivi dal rubinetto, sia che sia stata imbottigliata. Secondo lo studio “No Plastic in Nature: Assessing Plastic Ingestion from Nature to People”, commissionato dal WWF e condotto dai ricercatori dell’Università di Newcastle in Australia, che ha analizzato i dati di 50 precedenti ricerche, anche l’uomo ingerisce costantemente plastica. E non poca: circa 5 grammi a settimana, per un totale di 250 grammi ogni anno.
La realtà, dura da digerire come un pezzo di plastica derivato dal petrolio, è che ogni pezzo di plastica che sia mai stato prodotto e non è stato riciclato esiste ancora, ad eccezione della plastica biodegradabile, che però è degradabile solo in una certa misura.
CAMBIARE IL PARADIGMA E PUNTARE SU PRODOTTI BIODEGRADABILI
Ecco perché l’imperativo oggi dal punto di vista produttivo dovrebbe essere soltanto uno: rimpiazzare le plastiche derivate dal petrolio con plastiche biodegradabili, come quelle che si possono ottenere dalla canapa.
Per progredire, insomma, dobbiamo fare un passo indietro, e tornare a produrre oggetti di uso quotidiano con materiali alternativi. E anche qui la canapa è un ottimo esempio. Usata per secoli per produrre corde e reti da pesca, era un materiale perfetto per lo scopo per diversi motivi. I principali sono due: la sua resistenza, che l’aveva eletta a materiale d’eccellenza per la creazione di cordame, che fosse a uso agricolo, nautico o industriale, e il fatto che, se usata ad esempio come rete da pesca, potesse essere abbandonata in mare senza le conseguenze nefaste che comportano invece le corde in nylon, usate per lo stesso identico scopo.
Per far capire che le potenzialità ci sono, e che basterebbe solo svilupparle, ricordiamo un esempio italiano recente, che aveva visto Federcanapa collaborare con il vicesindaco di Taranto e gli allevatori di cozze locali, per sviluppare delle reti per i mitili che, invece che in nylon, fossero appunto in canapa. L’opportunità, sullo sfondo, era appunto quella di costruire una filiera sostenibile locale. A partire da un dato reso evidente dalla prima sperimentazione: «Dopo 9 o 10 mesi in mare la rete in canapa si scioglie, dando cibo all’ecosistema, e la cosa importante che abbiamo notato è che le cozze, rispetto a quelle cresciute nelle reti di nylon, crescono 6 volte in più, il che è un ottimo risultato», aveva sottolineato il vicesindaco Fabrizio Manzulli, che è anche l’assessore allo Sviluppo Economico della città.
LA RICERCA DEL CNR SULLE RESINE DI CANAPA
Ma anche sul tema bioplastiche derivate dalla canapa ci eravamo mossi per tempo, grazie al lavoro portato avanti dalla dottoressa Nicoletta Ravasio, senior scientist presso il dipartimento Istm del CNR. Il problema? La mancanza di fondi per portare avanti la ricerca e iniziare a immaginare una produzione industriale. Il prodotto sul quale si erano concentrate le ultime ricerche è una bioplastica che si ottiene dall’olio di canapa, quello che a sua volta si ottiene dalla spremitura dei semi e l’ultimo passaggio era stato quello di rinforzarla proprio con fibra di canapa. «Un ottimo lavoro – sottolinea la dottoressa – perché solitamente è necessario rendere compatibili le fibre con le resine o altri supporti, e invece in questo caso si sono amalgamate molto bene, senza bolle. È un materiale molto bello, che si può creare facilmente, molto rinforzato dal punto di vista meccanico e con una buona resistenza termica. Si presta per applicazioni nautiche, di arredamento o altri usi dove serve un materiale rigido e resistente e il nostro è un polimero bio-based in cui abbiamo sostituito lo stirene con il limonene e la fibra di vetro con la fibra di canapa, con più dell’86% di carbonio bio». Si potrebbe utilizzare anche nell’elettronica per sostituire prodotti a base fossile. Cosa servirebbe ora? Un finanziatore, sia per i nuovi progetti, che per poter pensare a una produzione, anche su piccola scala, per testare i materiali. In Usa, Canada, ma anche in Europa questo tipo di progetti vengono finanziati da governi e istituzioni e fa impressione che in Italia una mole di lavoro di questo tipo resti a livello sperimentale, anche perché a livello istituzionale regna il disinteresse, nonostante l’importanza della tematica.
LA BIOPLASTICA DI CANAPA DISTRIBUITA IN EUROPA
Altro esempio, anche questo italiano e recente, è quello della Lati spa, azienda della provincia di Varese, che ha iniziato a importare i prodotti plastici che contengono anche canapa e sono prodotti in Usa dalla Hemp Plastic Company, per distribuirli in Europa. Certo, il fatto di importarli facendoli viaggiare per parecchi chilometri non è il massimo dal punto di vista della sostenibilità, ma la possibilità di sostituire le plastiche tradizionali, in questa fase di transizione, vale il rischio. Attualmente si tratta di prodotti adatti per applicazioni nell’ambito del design, dell’oggettistica, della cancelleria, dell’arredamento o del packaging cosmetico, ma gli sviluppi futuri potrebbero essere diversi.
Intanto, riguardo questo progetto iniziato alla fine del 2021, oggi Francesco Manarini, che è il product development manager dell’azienda, sottolinea che: «Abbiamo fatto tante campionature per nuovi progetti, ma attualmente le vendite restano basse principalmente perché questa bioplastica negli Stati Uniti è approvata dall’FDA per il contatto con alimenti, caratteristica richiesta per molte applicazioni, ad esempio anche per il packaging cosmetico. Ora la casa madre dovrà fare l’omologazione per l’Europa».
Altro capitolo, tenendo conto che l’azienda lavora su prodotti tecnici a lunga durata puntando sul riutilizzo continuo, è quello dei biopolimeri tecnici da fonte rinnovabile, parziale o totale, competitivi con i rispettivi che provengono da fonti fossili, come bio-nylon o bio-poliestere. Sulla possibilità di iniziare a produrre anche in Italia bioplastica derivata dalla canapa o additivata sempre con canapa, dall’azienda spiegano che stanno iniziando a fare delle prove, ma ancora in ambito di laboratorio.
LE NOVITÀ A LIVELLO INTERNAZIONALE
In generale parliamo di operazioni che comportano un cambio di paradigma epocale, e quindi è più facile immaginarle se le istituzioni si dimostrano collaborative. In Canada, ad esempio, un produttore canadese di biocompositi di canapa con sede a Kelowna, Alberta, ha ricevuto una sovvenzione di 10 milioni di dollari canadesi (circa 7 milioni di euro) messi a disposizione dal governo per creare una fabbrica che produrrà prodotti per l’industria automobilistica, nautica, eolica e beni di consumo. Il nuovo stabilimento coprirà quasi 18.580 metri quadrati e produrrà fibre corte e lunghe raffinate per sostituire il legno di balsa nelle barche, pale delle turbine eoliche, parti di automobili e componenti per l’industria ferroviaria. INCA Renewtech rifornisce già Winnebago Industries con pannelli per veicoli ricreazionali e rimorchi per camion e ha collaborazioni con il produttore di compositi Gurit e Toyota North America. La società sta inoltre finalizzando accordi di sviluppo congiunto con produttori di polimeri canadesi e statunitensi. La donazione consentirà all’azienda di accelerare la costruzione della fabbrica, che dovrebbe essere operativa all’inizio del 2024.
Un altro esempio in questa direzione arriva dagli Usa, dove, grazie alle ricerche messe in moto dalla Thomas Jefferson University, un’azienda ha creato un sostituto sostenibile del nerofumo, carbon black in inglese. Per oltre 150 anni, il petrolio greggio è stato bruciato per creare il pigmento nero utilizzato praticamente in tutto, dagli pneumatici alle scarpe, dai tessuti ai cosmetici, dagli inchiostri all’elettronica personale. Hemp Black, l’azienda in questione, ha creato /eco6, un sostituto brevettato del nerofumo a base di petrolio. «Invece di bruciare petrolio, utilizziamo la canapa industriale che sequestra il carbonio 10 volte in modo più efficiente rispetto alle foreste», sottolineano dall’azienda spiegando che: «L’impronta di carbonio di miliardi di prodotti può essere ridotta semplicemente sostituendo il nerofumo a base di petrolio con /eco6, prodotto a base biologica certificato dal Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti».