Canapa e piante officinali: si ferma la discussione
Pare ormai un dato del tutto amaramente incontrovertibile, quello di una legislazione italiana improntata a essere braccio armato di una visione restrittiva e repressiva relativamente alla canapa, alla sua produzione e al suo commercio.
Pare, però, anche un costante e sconcertante refrain quello della disinvoltura degli enti legislativi – e i vari governi, qualunque sia il loro colore non fanno eccezione – a mutare orientamento, idea o indirizzo, dopo avere pubblicizzato, anche con inutile e ridicola enfasi, i loro progetti.
Vi è da essere basiti per l’ennesima acrobatica piroetta (purtroppo non sarà l’ultima), in base alla quale è stato ritirato il punto 11 all’ordine del giorno: vale a dire “intesa, ai sensi dell’art. 1, comma 3, del decreto legislativo 21 maggio 2018, n. 75, sullo schema di decreto del Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, di concerto con il Ministro della Transizione Ecologica e con il Ministro della Salute” che assoggettava le foglie e i fiori della Canapa Industriale (praticamente privi di THC e contenenti CBD) al DPR 309/90.
E ancora più sorprendente è la metodica utilizzata in quanto non è stato affatto chiarita la ragione del ritiro del punto all’odg. Ma cosa prevedeva la disposizione scomparsa improvvisamente e ingiustificatamente?
Secondo la bozza del decreto in materia di piante officinali, sarebbe dovuta essere mantenuta una capziosa distinzione tra semi (e derivati di questi), da una parte, e fiori e foglie, dall’altra.
I primi sarebbero stati ritenuti leciti e ricondotti al regime della L. 242/2016, mentre i secondi sarebbero rimasti nel recinto sanzionatorio del dpr 309/90 (testo unico in materia di stupefacenti).
Significativo era, infatti, in proposito il seguente paragrafo “4. La coltura della Cannabis sativa L. delle varietà ammesse per la produzione di semi e derivati dei semi è condotta ai sensi della legge 2 dicembre 2016, n. 242, recante disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa. La coltivazione delle piante di Cannabis ai fini della produzione di foglie e infiorescenze o di sostanze attive a uso medicinale è disciplinata dal decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, che ne vieta la coltivazione senza la prescritta autorizzazione da parte del Ministero della salute”.
In questo modo, si intendeva mantenere in vita il regime repressivo-burocratico, che ha il proprio fulcro proprio nei poteri autorizzativi e di controllo, che il dpr 309/90 riconosce al Ministero della Salute. In pratica, come si è letto anche in varie polemiche e prese di posizione, si sarebbe giunti al ridicolo paradosso per cui il coltivatore sarebbe stato costretto e chiamato a operare assurde e complicate selezioni, riguardanti parti delle piante di canapa coltivate, al fine di evitare che il prodotto della coltivazione non rientri in ambiti penalmente rilevanti.
Una delle prime e maggiormente rilevanti ricadute che una simile incredibile impostazione avrebbe determinato, avrebbe colpito la produzione di CBD, cannabinoide privo di psicoattività. Esso sarebbe stato erroneamente e ingiustificatamente travolto dalla distruzione di quelle parti della pianta che, invece, lo contengono in via esclusiva.
La rozza approssimazione del legislatore era emersa a tutto tondo, posto che il decreto del MIPAAF non si era posto affatto il problema del danno (sia diretto che indotto) che sarebbe potuto derivare, obbiettivamente, attraverso il ricorso a una impostazione del genere.
Si pensi, poi, alla assoluta illogicità della generalizzata criminalizzazione di fiori e foglie, laddove si era previsto di ricondurre sotto l’egida del dpr 309/90, sostanze – ed il CBD, come il CBN, è tale – che non sono affatto stupefacenti, né lo possono divenire neppure se valutati in associazione con il THC.
Tutto quanto sin qui esposto rende di tutta evidenza la miopia e l’ignoranza dei politici. Costoro dimostrano, non solo di non improntare alla logica e al buon senso la propria attività, ma anche di non essere per nulla preparati e aggiornati sui movimenti giurisprudenziali europei.
La sentenza 19 novembre 2020 C-663-18 della Quarta Sezione della Corte di Giustizia Europea, più conosciuta per il caso Kanavape (importazione dalla Repubblica Ceca in Francia), ha stabilito – in conformità delle conclusioni del Procuratore Generale – che non si possa in alcun modo ricondurre il CBD al regime degli stupefacenti.
L’evidente conseguenza che deriva da questo presupposto è quello della libera circolazione di tale cannabinoide non stupefacente, ai sensi dell’art. 34 TFUE, condizione che esclude qualsiasi potere degli Stati membri di ostacolare in qualunque modo il commercio all’interno dell’Unione.
Come detto la scarsa preparazione, unita a un atteggiamento improntato a una chiara prevenzione ideologica che travolge la canapa, assimilandola tout court e ingiustificatamente a sostanze droganti, è stato specchio di un possibile provvedimento, che si sarebbe posto in palese contrasto con una decisione della Corte di Giustizia Ue e che, quindi, non solo avrebbe potuto venire agevolmente disapplicato, ma avrebbe potuto, altresì, determinare la successiva condanna dell’Italia per non avere volontariamente rispettato l’interpretazione degli artt. 34 e 36 TFUE. Ora con un colpo di scena (taluno direbbe diversamente) il ritiro di una norma che non avrebbe neppure dovuto essere concepita.
Cosa vi sia dietro questo dietro-front non è dato sapersi. Resipiscenza? Nuova e più ponderata valutazione del problema o che altra convenienza politica? Resta lo sconcerto perché quando vige una condizione di incertezza e confusione del genere e un balletto normativo di tal misera fatta, la toppa potrebbe essere anche peggio del buco. Teniamo le dita incrociate.