Il vento della legalizzazione che da qualche anno attraversa gli Stati Uniti, non ha interessato per ora il Wisconsin, stato in cui far uso ricreativo di marijuana è illegale. Il possesso di qualsiasi quantità è punito fino a 6 mesi di carcere e una multa di 1000 dollari per il primo reato. Eppure anche in uno stato dove i repubblicani hanno tuttora la meglio, si pensa che la legalizzazione a un certo punto arriverà.
È da qui che arrivano i Bongzilla, gruppo che nel 1995 si è presentato sulla scena musicale come antesignano del weed metal, ovvero stoner metal con testi sulla cannabis. Forse perché ispirati da uno dei festival della marijuana più longevi del paese, l’Harvest Fest, o forse perché l’erba li ha accompagnati fin da piccoli, segnando passaggi più o meno importanti che hanno poi raccontato nei loro testi, la band è alla storia come pioniera di questa variante del metal. “Greenthumb”, pezzo contenuto “Gateway” del 2002, ad esempio, parla del leader della band che coltiva erba nel suo giardino, mentre il brano omonimo, “Gateway”, racconta roba più forte, ovvero di come si è liberato dall’eroina proprio grazie alla cannabis. “Stavo passando davvero un brutto periodo e se io o qualcuno della band fosse morto per overdose – ricorda a posteriori il cantante in un’intervista negli States -, il governo ne avrebbe approfittato per insistere sulla falsa tesi della marijuana come droga di passaggio“. Per fortuna, le cose sono andate diversamente.
“Weedsconsin”, uscito il 20 aprile del 2021 per l’etichetta romana Heavy Psych Sounds, ha segnato il ritorno ufficiale dei Bongzilla su disco dopo 16 anni. Una data non casuale per tutti gli amanti della marijuana: un motivo in più per loro per festeggiare il 4/20. L’album è un viaggio letargico di 40 minuti nel mondo dell’erba con le voci gutturali che arrivano all’ascoltatore come se passassero attraverso un denso fumo di cannabis. Per coloro che non sono amanti di questo genere – e in questo caso c’è a disposizione una cannaplaylist che spazia in altri territori -, è una bella sfida arrivare alla fine di un album con queste caratteristiche, un ostacolo compensato però da generose dosi di psichedelia fatta bene.
A un anno dal lancio di “Weedsconsin”, il gruppo, ora in formazione a tre, arriva in Italia il 13 aprile per un concerto al Bunker di Torino insieme ai Tons, con cui hanno condiviso l’LP.
Noi di Dolce Vita ne abbiamo approfittato per intervistare il fondatore e cantante, nonché bassista, Mike “Muleboy” Makela.
La vostra musica è strettamente legata alla marijuana. Come è iniziato tutto?
È successo quando ho esagerato con l’erba e i Black Sabbath nello stesso giorno. Avevo 11 anni!
Molte cose sono cambiate da allora. La cannabis è diventata una cosa normale di cui parlare, soprattutto negli Stati Uniti. Qui da noi è ancora un tabù e la Corte Costituzionale ha appena affossato la proposta di referendum che ne chiedeva la legalizzazione. Pensi che la legalizzazione della cannabis sia un indicatore del progresso civile e culturale di un paese?
Non proprio, direi. Gli Stati Uniti sono un posto piuttosto incasinato ultimamente.
Hai una varietà che preferisci, quale?
Dipende dai momenti. Ora, senza dubbio San Fernando Valley OG, Pineapple Grail e Grease Monkey.
State per esibirvi a Torino. Hai mai sentito parlare della cannabis light? È erba senza THC, un’invenzione italiana.
No e non sono sicuro di volerla provare. Non so cosa dovrei sentire, probabilmente niente!
Chi ha disegnato la copertina di “Weedsconsin”?
Eli Quinn, artista di Madison, nostra città natale. Di solito io lancio all’artista un’idea e lascio che sia lui a fare il resto, come in questo caso.