Bò Màrlin: il suo mito dietro le sbarre
Il 27 giugno del 1980 non ero ancora maggiorenne, per questo mi sono perso il concerto di Bob Marley a San Siro. Ripensandoci oggi non mi pare giusto, e a volte neanche vero.
Dopo la sua morte, il mito di Bob Marley si è consolidato a tal punto che è da tutti riconosciuto come un’icona di libertà.
Ovviamente, in un posto dove il tema della libertà è particolarmente “sentito”, come le carceri, Bob Marley è ancora oggi presente, nei discorsi, nei disegni sui muri, nei walkman, o comunque si chiamino gli aggeggi in cui si sono evoluti, e nei sogni di quei consumatori ed estimatori della cannabis, anche se è stata proprio quella la ragione che ha fatto loro varcare le porte della prigione.
Negli ultimi anni vi è stato un notevole incremento di detenuti stranieri nelle nostre carceri e tra loro, molti provengono dall’Africa sub-sahariana, dove il rastafarianesimo è la religione in cui si riconoscono, e nella quale anche il caro vecchio Bob si rispecchiava. Questo lo rende un po’ meno “trasgressivo”, anche all’interno degli istituiti di pena dove «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.»
Come ogni norma, anche l’articolo 19, di per sé magnifico, si può, a seconda dei casi, applicare o interpretare. La marijuana è stata al centro della religione Rastafari sin dal suo inizio. E l’atto di fumare nei gruppi di discussione religiosa è chiamato “ragionamento”. Una pratica però non permessa nelle nostre carceri.
E questo nonostante esista la sentenza numero 28720 del 2008 della Sesta Sezione penale della Cassazione che riconosce il diritto per chi professa la fede rasta a fumarla senza incorrere in sanzioni. Secondo quanto stabilito dai giudici, infatti, chi crede in Jah e nella sua reincarnazione in Hailé Selassié I, può liberamente circolare con qualche dose di “ganja” in più del lecito perché «secondo le notizie relative alle caratteristiche comportamentali degli adepti di tale religione di origine ebraica, la marijuana non è utilizzata solo come erba medicinale, ma anche come erba meditativa.»
A questa si aggiunga un’altra sentenza, rivoluzionaria anche per gli Usa, dove in fatto di cannabis medica sono molto più avanti che in Europa: lo scorso aprile un giudice del Nuovo Messico ha stabilito che i detenuti hanno il diritto di avere accesso alla cannabis medica anche all’interno del carcere.
Sia come sia, aspettando che le cose prima o poi si evolvano anche da noi, Bob resta uno dei “santi” cui ci si appella nei momenti di disperazione, che in prigionia sono inevitabili. Lunga vita al mito.