Bisogna desiderare un opulento silenzio
Sebbene la maggioranza di noi condanni il lungo tempo trascorso online, io sono dell’idea che non sia da condannare in toto l’uso di internet, così come quello della tv. Sono mezzi, scatole con contenuti da selezionare e da chiudere quando non servono. Possiamo coltivare relazioni qualitative anche con i social network, entrando in contatto con persone che difficilmente incontreremmo nella realtà, persone che poi però dobbiamo frequentare dal vivo: è questo che rende i social un mezzo e non un mondo virtuale che gira su se stesso.
Questa iper-connessione con tutti, tutto il giorno, comincia ad assumere anche un valore pedagogico, soprattutto per le nuove generazioni. In un sistema scolastico obsoleto, il riferimento culturale si sposta dai vecchi libri di studio, ormai vuoti, pesanti e incomprensibili, a quell’onnisciente cellulare che ha sempre una risposta per tutto, musica di tutti i tipi e gli amici sempre lì a portata di mano, alcuni addirittura solo virtuali. Si finisce per vivere solo da eroi in quel mondo facile, veloce, comprensibile, resettabile.
Si sta sempre più acquisendo quella che io chiamo una “lingua da video”, una lingua didascalica, che è contorno all’immagine più che espressione in sé. Siamo indotti a formulare frasi brevi: non mi riferisco solo alla gabbia dei caratteri di un tweet, ma a una tendenza spasmodica all’abbreviazione, conseguenza del dover comunicare con più persone, il più velocemente possibile, per essere presenti con tutti.
Si è formata una seconda scuola, in cui la massa viene educata ad usare un vocabolario limitato, a guardare le immagini senza leggere, in cui tutti possono dare opinioni su tutto, valutabili poi in termini di Like, faccine, pupazzetti, stelline. Una seconda scuola tecnologica che dobbiamo frequentare tutti e che parla la lingua facile, dove il più rachitico può essere un campione di Halo, dove tutti hanno migliaia di amici, dove non serve cultura o studio perché la foto del nostro piatto di spaghetti è più iconica di un’opera di Warhol. Dove la dissociazione tra i due linguaggi rappresenta quelle tra realtà e mondo virtuale, tra storia e cronaca, tra essere e apparire.
In questo mondo virtuale l’ego si fortifica con l’approvazione su fatti banali, ecco dunque il mio piatto di spaghetti: like, like, like… E le persone si misurano in follower più che in qualità.
Non deve quindi sorprendere se la vita è sempre più impostata sulla ricerca del consenso online: lì c’è la risposta immediata, l’ego eternamente appagato. Cosa desiderare di più?
Bisogna desiderare il rapporto umano, che è fatto di tempi lenti, di studiarsi, conoscersi e apprezzarsi o disprezzarsi anche attraverso i movimenti, gli odori, le voci.
Bisogna desiderare l’amore, che è molto più complicato dell’inserire il proprio profilo e aspettare passivamente un abbinamento su musica, viaggi, sport. L’amore della tua vita potrebbe ascoltare un genere che detesti ed essere il suo unico difetto. Un algoritmo non lo capirà mai.
Bisogna desiderare di cucinare in silenzio o cantando, perché è un atto di nutrimento primario che necessita concentrazione e partecipazione, situazioni lontane dal postare la foto di una torta perfetta, più vicine al nutrirsi spiritualmente.
Bisogna desiderare di disconnettersi. Questa iper-connessione sta generando un ulteriore danno autoinflitto: la perdita della cognizione del tempo. Senza accorgersene, passano ore in cui non si è fatto altro, in cui si è valicato il confine di un saluto trasformandolo nella lettura spasmodica di tutto ciò che hanno pubblicato i nostri contatti, nello scambio di like, in un eterno dare-e-avere che ci lascerà svuotati. Disconnettersi, a questo punto, può apparire la peggiore delle punizioni.
Se non si è in grado di bastare a se stessi, si cerca, si brama, il contatto virtuale con il prossimo, un contatto sicuro senza odori, sapori e suoni che ci elargisce solo approvazione (o nutrimento per il litigio, se si appartiene alla categoria degli eterni indignati). Si finisce in un vortice di chiacchiere di chi non ha la capacità di bastare a se stesso e cerca lo scambio, anche stupido, purché ci sia qualcuno dall’altra parte a confermargli che lui esiste, che il suo ego è nutrito.
Sarà questione di carattere, ma ho sempre tentato di tenere entro dei limiti questa sempre maggiore tensione alla comunicazione tecnologica. Partecipo, ma marginalmente. Il che non mi esclude dal mondo. Se sto cenando, il cellulare è sempre spento, salvo i tre numeri di emergenza. Non ho opinioni su tutto. Di aggiornare un social mentre pranzo, non se ne parla proprio. Se sto mangiando, mangio e non devo sottolinearlo postando il piatto e rispondendo ai conseguenti cinquanta messaggi. Mi godo il momento, i sapori, parlo con chi ho di fronte, mi godo la vita. La mia vita. Quella che non ci sta dentro un cellulare e che dovrebbe essere molto meno ricca per infilarcela tutta ma, nel farlo, ne perderei un’altra grande fetta. Si può scegliere, spesso, un interessante silenzio tecnologico, pieno di vita concreta.