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Big Pharma e capitalismo finanziario: una relazione perversa

Big Pharma e capitalismo finanziario: una relazione perversa

«A me interessa un dato: in Italia ci sono ogni anno quasi 180mila morti di cancro. Se questo è il segno di un successo io vado ai giardini pubblici. Il timore mio, e me ne assumo totalmente la responsabilità, è che il cancro in questi decenni sia diventato un affare insieme alle guerre. Il tumore al colon-retto, di cui mi occupo e di cui si conoscono tutti i precursori, potrebbe scomparire dalla faccia della terra. Si ammalano ogni anno 50mila persone con 25mila morti l’anno. Se si facesse una colonscopia a tutti gli italiani sopra i 45 anni non ci sarebbe più la malattia perché si andrebbero ad asportare le forme ancora benigne così da non ricorrere al potere delle multinazionali. Io lo dico senza vergogna, ma queste persone ormai gestiscono il problema farmaco fregandosene che i morti non sono assolutamente diminuiti e anzi, perché il problema è che tutti sanno che la soluzione del cancro non sarà legata alla chemioterapia. Bisognerà cambiare completamente registro».

Queste parole sono state pronunciate in una conferenza (disponibile nel video di seguito) da Ermanno Leo, oncologo, direttore della struttura di chirurgia colo-rettale presso l’Istituto tumori di Milano nonché professore in Chirurgia generale all’università La Sapienza di Roma.

Un business come le guerre. E come ogni altro business, in verità. Per tentare di comprendere la verità sui colossi del farmaco non serve infatti tirare fuori teorie che chiamino in ballo la massoneria o il deep state, come va di moda ora. Basta parlare di capitalismo, semplicemente. Le aziende farmaceutiche sono per l’appunto aziende e in quanto tali hanno lo scopo di arrivare al miglior fatturato possibile. Di più, esse sono ormai proiettate completamente nel capitalismo finanziario. Col termine Big Pharma si intendono le 15 aziende farmaceutiche mondiali col maggior fatturato, che da sole valgono oltre il 50% del mercato complessivo dei farmaci. Ebbene, 14 di loro sono ormai in mano a fondi di investimento globali. Questi hanno obiettivi chiari, in ogni settore dove intervengono: vogliono che il valore delle azioni aumenti e che ci siano ogni anno dei dividendi. Se ciò non succede, sono pronte a trasferire i loro soldi su altre ditte, nello stesso o in altri settori. Ma la spinta ad aumentare il valore delle azioni e dei dividendi è anche interna: ormai tutti i dirigenti di queste multinazionali sono pagati soprattutto in azioni. Agli interessi degli azionisti si aggiungono perciò quelli dei manager, in perfetta comunione di intenti. Da notare che nei paesi in cui le multinazionali hanno sede le azioni non sono tassate al momento dell’acquisizione e i dividendi sono tassati meno dei salari. Per aumentare il valore delle azioni e dei dividendi, le multinazionali cercano ovviamente di vendere di più e di aumentare entrate e margini di guadagno, ma ricorrono anche a trucchi legali in borsa, come ad esempio il riacquisto (buyback) delle azioni stesse. Pratica che spinge verso l’alto il valore delle azioni per un tempo sufficiente a rivenderle traendone grandi profitti per investitori e manager.

Big Pharma e capitalismo finanziario: una relazione perversaTra il 2006 e il 2015, Pfizer, Johnson & Johnson e Amgen hanno speso in riacquisto di azioni più del loro utile netto. Una realtà messa nero su bianco da una ricerca intitolata “Documenting the financialization of the pharmaceutical industry” pubblicata lo scorso agosto sulla rivista scientifica Social Science & Medicine. La stessa ricerca mette in luce anche le conseguenze di questo processo di finanziarizzazione dell’industria farmaceutica: tendenza a massimizzare il ritorno immediato o a breve termine rispetto agli investimenti con ritorno a medio o lungo termine; propensione ad alzare i prezzi dei prodotti per ottenere il massimo del profitto a breve termine; spese per marketing e pubblicità che tendono a sovrastare quelle per ricerca e sviluppo; riduzione degli investimenti per la ricerca di nuovi farmaci; spinta a ridurre spese per ricerca, produzione e fabbricazione, sempre più esternalizzate in paesi dove il lavoro costa meno e le regole sono più flessibili.

Comprendendo questi dati è anche più semplice capire alcune dinamiche. Si capisce, ad esempio, perché si è corsi a produrre a velocità record il vaccino contro il Covid mentre, ad esempio, quello per la malaria ancora non vede la luce dopo decenni di ricerca o per quello contro Ebola non è in pratica neppure cominciata la ricerca. Sono malattie che colpiscono i paesi poveri, quindi non è conveniente per le aziende impegnarsi nella produzione. Si capisce anche la ragione della corsa all’annuncio dei vaccini con l’unico risultato d’innalzare i valori delle azioni delle aziende farmaceutiche interessate, nonché la mossa del Ceo della Pfizer che ha venduto le proprie azioni all’indomani dell’annuncio sull’efficacia del vaccino prodotto dalla sua azienda. Si capisce, infine, perché le Big Pharma non hanno alcun interesse a fare ricerche per nuovi antibiotici seppur la resistenza antimicrobica sia considerata una minaccia globale paragonabile a una pandemia, che già oggi ogni anno miete circa 700mila vittime nel mondo: produrre antibiotici prevede lunghe ricerche ed economicamente non è molto conveniente.

Insomma, da qualsiasi angolatura si guardi la questione il problema non è la medicina “occidentale”, né tantomeno la scienza. Sono discipline che hanno permesso all’uomo di fare un balzo in avanti clamoroso raddoppiando le aspettative di vita in poco più di un secolo. Questo è innegabile. La questione è porle al servizio dell’interesse collettivo e non di quello di pochi.

La teoria economica liberale sostiene che il mercato vada lasciato senza regole, perché si regola da sé e perché ogni imprenditore ha interesse a fare le cose per bene e a venderle al miglior prezzo per continuare ad affermarsi. Un’idea che nella pratica ha sempre mostrato falle evidenti ma che oggi, di fronte all’affermazione del capitalismo finanziario si rivela del tutto falsa e da combattere. Ai vari Ceo dei fondi d’investimento che governano le Big Pharma non importa nulla di lavorare a benefici a medio o lungo termine: tutto si gioca su annunci, valori delle azioni, dividendi e profitti rapidi. Per questo non si può lasciare la salute pubblica in mano a loro. E per questo occorre riformare al più presto anche l’Oms, che è in gran parte finanziata da fondi privati spesso facenti capo alle stesse aziende farmaceutiche.

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