Basket e musica, un binomio inscindibile
Dici basket e musica e pensi immediatamente a due cose: i video degli highlights, nei quali il legame tra le azioni di gioco ed una colonna sonora adeguata è fortissimo, e l’hip-hop, generale musicale ma soprattutto cultura che ormai è entrata in tutto e per tutto nel mondo NBA. E spesso, difatti, la musica che accompagna schiacciate, passaggi, stoppate e quant’altro, è proprio quella hip-hop. Se il binomio tra basket e musica è esploso, negli anni ’90, lo si deve proprio all’entrata in scena della cultura di strada, anche se non mancano le eccezioni.
Cultura che inizia a diffondersi pian piano: i primi segni nel febbraio 1985, quando Michael Jordan si presenta alla gara delle schiacciate con catene d’oro al collo, venendo ammonito dall’NBA. Più di quello, il primo status symbol della cultura hip-hop, aspetto ben evidenziato nella pellicola “Do the right thing” di Spike Lee e che ancora oggi, grazie alla moda vintage, si radica sempre di più, saranno le mitiche Air Jordan.
I passi seguenti li scrivono due atleti che hanno cambiato anche la geografia del gioco: Shaquille O’Neal e Allen Iverson. Il primo rappresenta qualcosa fuori dall’ordinario: un gigante di 220 cm che si muove come una ballerina, che abbina potenza ed agilità come nessun altro dai tempi di Wilt Chamberlain e soprattutto che non ha moti di rivolta nei confronti della società. The Answer è esattamente l’opposto, con quel metro e ottanta scarso in cui chiunque si può rivedere e la genuina volontà di portare il ghetto sui parquet NBA.
Shaq già nel 1993 iniziò a collaborare con i Fu-Schnickens e diede alla luce il suo primo album: Shaq Diesel arriva fino al n° 25 della classifica di Billboard, ricevendo anche la certificazione di platino dalla RIAA (Recording Industry Association of America). Il rap di Shaq non è certo di quelli che entrano nella storia, ma The Big Aristotle non si ferma, incide cinque album ed una compilation, mentre tra le altre cose trova il tempo per recitare in alcuni film. Negli anni seguenti sarà tempo di pensare a vincere dei titoli, ma Shaq, il cui successo come artista è dato soprattutto dal suo essere personaggio in ogni cosa che fa, non perde occasione di ‘sfogarsi’ cantando: prima contro Vlade Divac, in un video registrato sul pullman dei Lakers e divenuto celeberrimo su You Tube, poi, nel 2008,contro Kobe Bryant in un’esibizione di freestyle in club di New York.
E proprio il ‘dissing’, ovvero lo schernire qualcuno con parole poco educate, è l’anima della corrente successiva. Che, in NBA, si apre ufficialmente quando David Stern, nel draft 1996, chiama come prima scelta assoluta Allen Iverson. Il quale, prima di salire la scalinata e indossare il cappellino dei 76ers, regala baci e abbracci a tutta la sua posse, ovviamente presente nella green room così come poi, negli anni seguenti, a bordo campo. Simbolo della cultura hip-hop, dai tatuaggi ai cornrows, poteva forse non accarezzare l’idea di darsi alle rime? Nemmeno per sogno, ed in men che non si dica ecco pronto l’album d’esordio sotto lo pseudonimo di Jewelz: peccato che il primo singolo, “40 bars”, già dal titolo poco incoraggiante (“40 spranghe”), contenesse messaggi omofobi sin troppo espliciti per i gusti di David Stern. L’album alla fine non uscì e di lui come rapper si ricordano solo le apparizioni con Jadakiss in uno spot Reebok.
Laddove non c’è riuscito Iverson, ce l’ha fatta Ron Artest. Che nel 2006, ormai messosi alle spalle quasi del tutto la storiaccia di Auburn Hills, incise “My World”, album rap non propriamente apprezzato dal commish, e non solo per i diversi gusti musicali. Ancora oggi, Ron Ron non perde occasione di collaborare con diversi artisti e, poco dopo la conquista del titolo NBA 2010, leggermente galvanizzato come si è potuto vedere anche nella conferenza stampa post anello, ha inciso il nuovo singolo dall’originalissimo titolo “Champions”.
Tanto per non farci mancare nulla, ricordiamo pure le improvvisate ‘carriere’ da rapper di Kobe Bryant e Tony Parker, due afroamericani che non sono cresciuti nel ghetto e che quindi spesso sono stati visti come ‘diversi’ dai brotha: in entrambi i casi, niente di memorabile. Tony P si cimentò con Fabolous Booba in “Top of the Game”, ed in altri pezzi, sempre ovviamente in lingua madre, ma il dominio sulla scena transalpina degli IAM non è mai decisamente stato in pericolo… Kobe… beh, giusto il minimo sindacabile, una bella apparizione live cantando il singolo “K.O.B.E.”, inciso col featuring di Tyra Banks, peraltro ex “signora” Webber.
Esempi non mancano anche tra i giocatori di scena in Italia: Dee Brown, elettrizzante play la scorsa stagione all’Air Avellino, sviluppa per passione una parallela carriera da rapper (oltre che di scrittore), ed ha all’attivo due mixtape: il primo si chiama “Unwritten”, il secondo “Time Away”. Poi c’è il caso di Troy Bell, che nelle ultime due stagioni ha guidato la Vanoli prima in serie A e poi alla salvezza ed ora giocherà in Francia, ad Orleans: proveniente da un estrazione culturale diversa da quella della maggior parte degli atleti afroamericani di oggi, TB si ispira ad artisti come Prince, Sade, Marvin Gaye, Maxwell. A Cremona, città dei violini, Bell ha trovato l’ispirazione per mettere mano ad un progetto cui pensava da tempo: l’anno scorso, in poco più di due mesi, scrisse una quarantina di testi. Ora rivisitati e dati alle stampe nell’album “Body language”, schizzato fino al n° 7 della classifica RnB/Soul di ReverbNation. Il suo genere è molto soft per melodie e argomenti, pur se nelle sue canzoni non mancano versi rappati, per i quali ha coinvolto anche il compagno di squadra E.J. Rowland.
Ovviamente ci sono anche gli esempi ‘rovesciati’, gli artisti che provano a fare i giocatori di basket: perché se in gioventù ogni baller ha provato a rappare, ogni rapper ha fatto due tiri a basket. Jayceon Terrell Taylor, meglio conosciuto come The Game, prima di entrare nella gang dei Bloods, ha giocato a Compton High School con Baron Davis, che nel 2003 fece da padrino al primogenito del rapper, Harlem Caron. “Sono una leggenda dei playground californiani – spiegò lui senza troppa modestia –, chiedete in giro. Al liceo avevo medie di 14.9 punti, 6 rimbalzi e 4 assist a partita: non male per uno che tirava avanti una gang e spacciava droga full-time, no?”. The Game si guadagnò anche una borsa di studio per Washington State, ma proprio i problemi con la droga stopparono la sua carriera di atleta.
Ben più nota la ‘saga’ dei Miller: Percy, al secolo Master P, dopo l’università a California, ha provato a fare la squadra prima con gli Charlotte Hornets e poi con i Toronto Raptors. Niente da fare, ma siccome non mancano leghe minori, il nostro si è dilettato prima in CBA (Fort Wayne Fury) e in una moderna edizione dell’ABA (Las Vegas Rattlers, nel 2004). La“consacrazione” al torneo delle celebrità all’All Star Game 2008, con 17 punti e i due liberi decisivi… Nel frattempo, però, è cresciuto il figlioletto, aka Lil’ Romeo, fenomeno precocissimo col mic e, come il padre, pronto ad apparire nelle vesti di attore in ogni occasione. Anche in questo caso, però, il talento per fare la point-guard è giusto quello che serve per completare una dignitosa carriera liceale. Al college si va a Southern California con l’amico DeRozan, ma i numeri delle prime due stagioni la dicono lunga: solo 9 gare, 19 minuti pur con 26 punti all’attivo…
E infine c’è il rapper talmente appassionato e ben coperto in banca, Jay-Z, che investe nelle quote dei New Jersey
Nets e diventa amico vero di LeBron James. Nei playoff 2008 DeShawn Stevenson lo definisce sopravvalutato, e James
risponde che non nemmeno è il caso di parlarne, sarebbe come parlare di Jay-Z e Soulja Boy, giovane rapper di Chicago. Che, chiamato in causa, corre in supporto di Stevenson, mentre il magnate dell’hip-hop newyorkese spalleggia l’amico LeBron dando contro alla guardia di Washington in un suo pezzo. Tutto vano, però, per portare The Chosen One dalla sua parte nella recente estate di free agency; alcune fonti rivelano anche di una presunta rottura tra i due, con Jay-z offeso per non aver ricevuto nemmeno una telefonata. E, oltre al ‘danno’, gli tocca la beffa di vedersi schernito a ritmo di una sua canzone su You Tube…
Non solo rap, però: chi ha fatto musica discostandosi da questo filone è Wayman Tisdale,morto nel 2009 all’età di 44 anni dopo una lotta di due anni contro il cancro. Dodici anni di carriera NBA tra Indiana, Sacramento e Phoenix, oltre 12mila punti e 5mila rimbalzi, con un’annata memorabile ai Kings da 22.3 punti e 7.5 rimbalzi. Due anni prima del suo ritiro, Tisdale, bassista che si ispirava al funk anni ’70, pubblicò il suo primo album jazz, “Power forward”; ne seguirono altri sette, tra cui “Face to face”, datato 2001, che schizzò anche in vetta alle classifiche del settore.
Infine, c’è chi, come Jerry Stackhouse, smorza la tensione del pregara sostituendola con quella di un esibizione davanti a 20mila persone, cantando l’inno nazionale americano. Lo fece a Dallas, nel 2007, l’ha fatto più recentemente prima di gara 6 della serie playoff tra i suoi Milwaukee Bucks e gli Atlanta Hawks. Se l’è cavata benino. E Jamario Moon, quand’era ai Toronto Raptors, si cimentò con quello canadese, pur se in un’occasione non ufficiale come quelle in cui si è esibito Stack.
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fonte: basketlive.it