Banksy alla scoperta dell’America: un’opera al giorno per trasformare NY in un museo a cielo aperto
“Better out than in”, meglio fuori che dentro, non è solo il titolo dell’ultimo progetto di Banksy. E’ anche la dichiarazione esplicita del suo modo di intendere l’arte. Non è un consiglio sulla necessità di esternare sempre i propri sentimenti, o ancora peggio un invito ad andare di corpo appena se ne sente lo stimolo. La giusta interpretazione arriva direttamente dalla home page del suo sito internet. «All picture painted inside, in the studio, will never be as good as those done outside», recita la citazione di Paul Cézanne.
La promessa è quella di realizzare un’opera al giorno per tutto il mese di ottobre, per trasformare New York – che lo voglia o meno – nella sua personale galleria. Ma invece che un artist-in-residence, e cioè l’invito di artisti ad un momento di ricerca e riflessione, ospitandoli in un posto diverso da quello al quale sono abituati in modo che possano trovare nuovi stimoli, per Banksy diventa un artist residency, dove residency, oltre a residenza, può significare l’atto di essere internati in ospedale.
Le parole sono importanti quanto le immagini nel completare i messaggi che l’artista lancia spesso in più direzioni, schernendo i paradossi del mondo che abbiamo davanti agli occhi, ma senza smettere di prendere in giro anche se stesso.
Infatti non si smentisce e non smette di sbeffeggiare il sistema dell’arte. Nel museo all’aperto che ha deciso di creare le opere sono completate da una didascalia con un numero di telefono da chiamare per avere informazioni, come le classiche audio-guide. Ma la voce registrata dall’altra parte del filo – ascoltabile anche sul sito – contestualizza il lavoro prendendo in giro l’artista e l’opera stessa, arrivando, come nell’ultimo caso, a divenire inascoltabile perché coperta dalla musica di sottofondo il cui volume aumenta sempre di più. Un gesto che richiama il modus operandi dadaista: Bansky censura e si autocensura, sbeffeggia e si autosbeffeggia, in un gioco dove lo spettatore al primo impatto fatica a riconoscere la sottile linea tra ironia e critica.
La prima opera è apparsa in Allen Street vicino al Lower East Side, sotto ad un cartello con la scritta “Graffiti is a crime” e la bomboletta barrata. Banksy ha dipinto un ragazzino scalzo, che sale sulla schiena di un giovane compare, per allungare la mano e cercare di afferrarla. Il messaggio dissacrante dell’audio-guida spiega che: «Cogliere l’attimo della vita è sempre stata l’ambizione dei grandi artisti», prima di domandarsi: «Davvero? Ma chi ha scritto questa porcheria?». Purtroppo l’opera è durata poco. Nella notte qualcuno ha ben pensato di rubare il cartello, che è prontamente stato sostituito dai ragazzi della Smart Crew con uno simile che recita “Street art is a crime”. Poi il tutto è stato coperto da una mano di bianco, sulla quale un ignoto furbacchione ha scritto con un’incerta grafia: «Sweaty palms made me lose the love of my life».
La seconda, nella parte ovest della città, è una scritta: “This is my New York accent” fatta riprendendo il font usato per molte tag, newyorkesi e non, completata con un “…normally I write like this”, in un carattere più sobrio ed elegante. Freddura inglese o incitamento al rinnovamento? La terza e per ora ultima raffigura l’ombra di un cane intento a marchiare il proprio territorio, facendo pipì – giusto per tornare all’iniziale “meglio fuori che dentro” – sull’ombra di un idrante, che nel ricevere le attenzioni dell’animale riflette pensando: “You complete me…”.
Di questo progetto ancora all’inizio, in bilico tra la sfida, lo scherzo e il colpo di teatro, in America è stato scritto che Banksy morde la Grande Mela. Speriamo non sia avvelenata.
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Mario Catania