Interviste

Assalti Frontali alla scuola pubblica e siamo “Soli contro tutto”

SCUOLA ELEMENTARE IQBAL MASIH

Una vita spesa per la lotta che si rinnova sempre a fianco dei più deboli, in una battaglia combattuta con parole che profumano di vita e di speranza. Che siano raffiche a tempo di rap o la prosa ben limata di “Soli contro tutto”, sono quelle scelte con cura da Militant A che da quasi 25 anni insieme ad Assalti Frontali utilizza suoni ed inchiostro per raccontare la realtà che ci circonda, restituendoci un mondo più umano, con la certezza che possiamo ancora farcela. E così come si evolve il linguaggio, cambiano anche gli orizzonti di un rapper diventato papà, che all’Iqbal Masih di Centocelle, scuola che prende il nome da un bambino pakistano di 12 anni ucciso davanti a casa sua mentre andava in bicicletta e che «rappresenta tutti i bambini del mondo», nella quale porta le sue bambine, sposa con tutto se stesso l’idea che proprio la scuola sia il punto di partenza per ricostruire un futuro e una base comune. Una “Roma meticcia” dove s’incrociano il mondo di bambini, maestre e genitori che si oppongono al decreto Gelmini e quello di un campo rom non autorizzato. Due mondi i cui i confini si fanno sempre più labili, uniti dal desiderio di dignità e dall’idea che: «Tutti i bambini debbano avere una casa e dovunque vadano debbano sentirsi a casa».

Qual è il motivo che ti ha portato a scrivere “Soli contro tutto”?
L’ho scritto per trasmettere l’importanza della battaglia per l’istruzione pubblica e la scuola di qualità per tutti. Penso che sia cruciale oggi in Italia, visto che molti ragazzi la vedono come un posto da cui scappare e invece dovrebbe essere uno dei luoghi più importanti della nostra vita. Ho sempre lottato stando dentro la scuola, dal collettivo del liceo e proseguendo all’Università con il movimento studentesco della Pantera. Lì ho cominciato a fare rap utilizzandolo come mezzo per diffondere le nostre idee, senza più smettere. Il fatto di essere oggi genitore di due bambine che frequentano le elementari mi ha portato a conoscere persone che mi hanno mostrato il cuore della battaglia per la scuola pubblica rispetto a quella privata, ma soprattutto per una scuola di qualità, rispetto alla scuola “scarsa” che ci fanno credere accresca le capacità cognitive degli alunni e invece produce solo forza lavoro sottopagata.

Cosa deve fare una scuola?
E’ una cosa che ha molto a che fare con il rap perché, per come l’ho sempre interpretato io, si tratta di trasmettere delle cose agli altri, di comunicare e di creare un sapere collettivo.

Qual è il motivo per cui avete dato battaglia al decreto Gelmini?
E’ stato innanzitutto un modo per interrogarmi sulla scuola e sul perché dobbiamo amarla. Anche se non esiste “la scuola” in sé, ma ce ne sono tanti tipi in cui ogni classe è un mondo a parte. Le classi sono degli edifici anonimi che ospitano degli esseri umani che con le loro relazioni e le loro capacità creano la Scuola: per questo devono essere gli studenti, i genitori e le maestre a riappropriarsene.

E com’è la scuola che vorresti tu e non basta rispondere “pubblica, laica e solidale”?
Una scuola aperta al territorio che sia un punto di riferimento per accogliere le persone del quartiere. Come fosse un centro sociale più raffinato e con ambienti protetti che contenga progetti culturali e includa le persone, restituendo allo stesso tempo tutti i bisogni e le ambizioni culturali. Se tutte le scuole in Italia fossero un luogo simile sarebbe una vera rivoluzione. Non ci si deve andare solamente a fare lezione.

In che senso?
Ci si dovrebbe preoccupare anche di che cosa accade ai bambini una volta usciti dal cancello dell’istituto. Sapere dove vanno, come vivono, se hanno o meno una casa. Se la comunità si fa carico di questa vita intera che non si esaurisce con il suono della campanella, questa scuola può tutto.

Come si incrocia la storia di un campo rom non autorizzato e la battaglia per una scuola migliore?

Proprio con il fatto che ognuno si dovrebbe far carico dei problemi degli altri. Un bambino non può andare bene a scuola se ha dei problemi grossi a casa e i bambini rom di cui parlo non avevano una casa e vivevano in un campo non autorizzato. Quando è arrivata l’ordinanza di sgombero, non si trattava più del solito campo rom, ma di Magdalena, Elèna e Nicoletta, bambine che frequentavano la stessa classe dei loro figli e quindi i genitori sono andati a difenderle perché facevano parte della loro comunità. Poi si è sviluppato un percorso che ha portato all’occupazione della scuola per protestare contro il decreto Gelmini, ma ciò che conta è che persone potenzialmente indifferenti siano diventate protagoniste di questa protesta.

Qual è la tua idea di Europa?

Vivere la scuola e il territorio in questo modo, vivere gli altri, fare comunità, questo per me è l’Europa. Vuol dire diritti e capacità di diventare cittadini di questo mondo. E’ il livello di qualità di vita che riusciamo a garantire per noi e gli altri nel nostro territorio. Portare in Europa questo pezzo di quartiere di Roma è fare questa cosa ad altissimo livello garantendo a tutta la comunità un livello alto di istruzione e di diritti come quello della casa. Una battaglia che è arrivata talmente in alto che il governo Renzi ha dovuto prendere provvedimenti con il nuovo piano casa che vorrebbe togliere la residenza, oltre che staccare acqua luce e gas a tutte le persone che occupano le case. È una cosa che nessun governo ha mai fatto prima e che mette in pericolo il diritto all’istruzione e alla vita di questa comunità.

Puoi spiegare ad un gaggè (il termine usato dai rom per definire chi non fa parte della loro comunità, ndr) perché “Sono cool questi rom”?
E’ difficile per un gaggè capire un rom. I gaggè deridono i rom e viceversa, ed è una cosa che va avanti così da 1500 anni. Se però, com’è accaduto a noi, ti rivolgi a loro non come persone da aiutare, ma come compagni di questa battaglia, allora questo significa Europa. Puoi scoprire quanto sono belli e quanto hanno da insegnare, quanto riescono ad essere allegri nelle difficoltà, quanto per loro il non avere niente significhi avere tutto, quanto sono pronti a ricominciare sempre senza fare una piega. In questo abbiamo tanto da imparare.

Cambiando argomento state preparando un nuovo disco?
Ora sono molto preso dalla presentazione del libro: finché canto “Il rap di Enea” ai concerti è una cosa, ma un libro da 330 pagine ho bisogno di spiegarlo per farlo capire e per diffonderlo. Sta andando bene ed è in ristampa dopo che sono esaurite le prime 1500 copie. Da settembre cominceremo invece i lavori per il nuovo disco che uscirà la prossima primavera.

Siamo quasi alle nozze d’argento dalla nascita di Onda Rossa Posse, qual è il filo conduttore?
Il filo conduttore è la ricerca di un linguaggio che possa raccontare le nostre esperienze di libertà, di stare bene, di lotta e poesia. All’inizio non pensavo assolutamente che sarebbe diventato un lavoro e invece se mi guardo indietro la maggior parte della mia vita l’ho passata così, vivendo le esperienze più belle facendo il rap. Solo standoci sempre dentro lo capisci, se ti stacchi per un po’ poi ritornarci dentro è difficilissimo: è una cosa che si ripete uguale per certi aspetti, ma sempre diversa: come una portata a tavola che ti viene servita in modi differenti ogni volta. Abbiamo cercato di aprire spazi e lottare con tutti i mezzi a disposizione, tra i quali la musica è forse quello più all’altezza di ciò che ci troviamo davanti.

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