Viaggi e avventure

Sul tetto del mondo con i pastori nomadi tibetani

Un fotografo al seguito di una ong racconta a Dolce Vita il viaggio in una delle aree più remote dell’altopiano tibetano dove il turismo non arriva e una cultura sta per scomparire

A Nomad's life di Stefano Bottesi

Sull’Altopiano Tibetano si trovano alcuni tra i pascoli più elevati del mondo, a un’altitudine che varia tra i 3.500 e i 5.400 metri sul livello del mare. Il clima è continentale, estremamente rigido, soleggiato e secco per buona parte dell’anno. Le precipitazioni sono per lo più concentrate nei mesi da giugno a settembre, ma non è raro il verificarsi di intense nevicate nei mesi invernali.

Lì vivono popolazioni di pastori nomadi, migranti ambientali da generazioni, che oggi rischiano di scomparire, gravemente colpite da fenomeni d’impoverimento ed emarginazione. Da diversi anni il governo centrale punta per loro alla transizione da un modello pastorale estensivo e semi-nomadico, a quello intensivo, fondato sul concetto di proprietà privata. Le linee politiche hanno spinto così a promuovere modelli stanziali di allevamento, a partire dalla limitazione alla transumanza, alla recinzione di pascoli privati e, in generale, allo smantellamento dei modelli di allevamento tradizionalmente conosciuti. Gli effetti sperati di professionalizzazione del settore però sono stati disattesi oltre a minare fortemente la sussistenza di questa cultura.

LA MISSIONE

È raro vedere un occidentale spingersi da quelle parti. Infatti, se in generale non è facile viaggiare nelle aree tibetane della Cina in quanto il controllo delle autorità è molto attivo – servono permessi specifici che è più facile ottenere se si viaggia con un’agenzia di turismo locale -, nelle zone nomadiche più remote il turismo è proprio assente. Sono territori impervi e difficili da raggiungere per la mancanza di strade. 

Qualcuno che si avventura sull’altopiano però c’è, spesso mosso da vere e proprie missioni. Così è accaduto a Stefano Bottesi, fotografo trentino al seguito di Asia, Organizzazione non governativa fondata da Chögyal Namkhai Norbu, maestro dell’insegnamento spirituale tibetano Dzogchen, impegnata dal 1988 in Tibet e nell’area Himalayana.

Bottesi era già stato in Tibet altre volte, ma questa, che ha documentato nella mostra “A Nomad’s life”, gli ha dato accesso a una realtà altrimenti difficilmente accessibile: «Anni fa il mio primo viaggio in questa parte di mondo fu nella zona di Lhasa, nella Regione Autonoma Tibetana. Fu un’esperienza molto bella che feci con un viaggio organizzato da due amici esperti tibetologi che allora proponevano ogni anno viaggi in Asia, Tibet, India e Ladak», ci racconta.

Il fotografo ha contribuito al progetto, in fase di conclusione proprio in questo periodo, che ha puntato al raggiungimento dell’autosufficienza economica e alimentare delle famiglie nomadi del distretto di Domda, contea di Tringdu, prefettura autonoma Tibetana di Yushu, Qinghai, Cina, attraverso corsi di formazione per la popolazione, fornitura di attrezzature veterinarie e incremento del bestiame. Un piano che tenta di dare nuova linfa allo sviluppo dell’economia locale e alla sostenibilità dei modelli pastorali esistenti oltreché di salvaguardare, proprio grazie alla conoscenza degli indigeni, un habitat con molte specie endemiche a rischio. «Sarebbe molto bello poter proporre una qualche forma di turismo solidale e responsabile nelle aree nomadiche in contatto con la vita reale delle famiglie nomadi – confida Bottesi – Credo potrebbe rivelarsi per molti aspetti un’esperienza catartica.» 

"A Nomad's life" di Stefano Bottesi

LA VITA NOMADE

Le foto che illustrano questo articolo sono parte di un servizio più ampio realizzato durante l’estate del 2018: «Ciò che troverebbe un viaggiatore che si spingesse fin lì, sarebbe uno spazio vasto, poco urbanizzato, in precario equilibrio tra un certo sviluppo e un’antica tradizione pastorale ancora molto radicata nella popolazione rurale. Vedrebbe piccole cittadine a prevalenza tibetana, qualche monastero e vallate e pascoli a perdita d’occhio che si estendono in un’area grande quasi come il Nord Italia», racconta.  «Io lo ricordo come un viaggio entusiasmante sotto diversi aspetti. Insieme a Pema, il capo progetto, attraversammo l’altipiano tibetano in lungo e in largo cercando di raggiungere i nomadi nei pascoli dove, come da tradizione, si trasferivano coi loro animali nei mesi estivi. Percorremmo centinaia di chilometri in territori immensi, spesso senza nemmeno l’ombra di una vera strada, guadando fiumi, impantanandoci negli acquitrini di cui è costellata la vasta prateria tibetana ma sempre accolti con estrema gentilezza e disponibilità nelle tende dei nomadi.»

In alcune aree il reddito pro-capite annuo non arriva a 300 euro, ma in generale le popolazioni dell’Altopiano registrano forti tassi di povertà. Il livello educativo è molto basso, il tasso di analfabetismo tra i nomadi raggiunge il 70% della popolazione: «Durante i quindici giorni della missione abbiamo intervistato le famiglie che avevano partecipato alla formazione impartita durante il progetto. Il dialogo diretto con i nomadi non era semplice, più che altro per ragioni linguistiche». In effetti in Tibet si parlano diverse versioni del tibetano e spesso perone appartenenti a regioni distanti tra loro stentano a comprendersi. «Grazie a Pema che fungeva da interprete potevamo comunicare in un singolare sistema multi traduzione che partiva dall’inglese per trasformarsi in tibetano e ritorno. Ma a volte nemmeno Pema conosceva tutte le versioni dei dialetti tibetani parlati dai nomadi che incontravamo e allora si univa a noi un secondo traduttore. Insomma, un’esperienza impegnativa in cui probabilmente qualcosa è andato perso, ma la concentrazione necessaria per comunicare acuiva il desiderio di comprendere le loro parole e il loro mondo».

"A Nomad's life" di Stefano Bottesi

L’INCONTRO UMANO

«Il momento sicuramente più intenso e coinvolgente fu quando raggiungemmo una delle tende a notte fatta. Eravamo a una quota di quasi 5.000 metri e letteralmente in mezzo al nulla. Non c’era possibilità di fare rientro e così la famiglia che ci accolse, oltre a offrirci la cena, ci fece spazio nella tenda per la notte. Quella sera ci fu una riunione tra i capifamiglia della piccola comunità di tende in quel pascolo sperduto e si parlò molto della loro situazione, dei rapporti coi “vicini” che a volte sconfinavano coi loro animali, dei tanti cambiamenti che pesavano sulla vita nomade mettendo a rischio la sua sopravvivenza. Pema, non senza fatica, cercava di riportare a noi quanto più possibile e noi ascoltavamo, tra il fumo della stufa, il bollire dello stufato di yak e il sonno che cominciava a pesare». In un momento storico di estrema precarietà per le comunità di allevatori tibetani, che si trovano ad affrontare l’incapacità di gestire le proprie mandrie, di collocare i loro prodotti su un mercato regolamentato e trasparente e di potere vivere dignitosamente sui territori difficili che hanno sempre gestito e curato, è il lato umano a lasciare il segno nel nostro interlocutore: «La cosa che sorprende di più nell’incontro con i nomadi è la loro gentilezza e apertura, il sorriso, la capacità di annullare imbarazzi e diffidenza anche in un incontro tra sconosciuti. Spero che dalle foto sia percepibile questa loro disponibilità.»

"A Nomad's life" di Stefano Bottesi



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