Allucinogeni: tecniche e applicazioni terapeutiche
Obiettivamente, efficacia e utilità dell’LSD (e di altre sostanze analoghe) nella psicoterapia sono state spesso messe in dubbio da molti medici, a volte con argomentazioni dettate più da ignoranza e faziosità che non da dati di fatto; alcune critiche invece, portate avanti principalmente dagli ambienti freudiani più ortodossi, mi sembrano abbastanza fondate e interessanti: tali riserve si basano sul fatto che con queste sostanze, le esperienze rimosse possono riaffiorare con troppa rapidità, e il paziente non ha il tempo di elaborarle con dovuta proprietà. Il tutto, oltre ai rischi immediati di un aumento gratuito della sofferenza psichica, si tradurrebbe in una minor durata dei benefici, a differenza della relativamente stabile efficacia di un trattamento tradizionale, attraverso un lento e graduale lavoro analitico con conseguente processo di consapevolezza.
Negli anni in cui ricerca e sperimentazione con l’LSD erano ancora legali, numerosi furono i tentativi per ottimizzare e sistematicizzare l’uso di tali sostanze in psicoterapia; questi diedero vita a differenze e varianti in base all’approccio epistemiologico dei vari autori: per semplicità possiamo dividere le varie tecniche in tre categorie principali, in base al dosaggio di LSD e all’enfasi attribuita al ruolo del terapeuta nel corso delle sedute.
1- LA TERAPIA PSICOLITICA, praticata soprattutto in Europa, deve il suo nome allo psichiatra britannico Ronald Sandison. Consisteva nella somministrazione di piccole o medie dosi di LSD (da 25 a 150 mcg.) con cadenza settimanale o quindicinale. Il numero delle sedute dipendeva dal quadro clinico e dagli scopi terapeutici, dalle 10 – 15 sedute fino al centinaio, con una media complessiva di 40 – 50. Lo scopo era di mettere a fuoco il materiale inconscio, analizzarlo e interpretarlo nel corso della seduta o meglio ancora in successive sedute tradizionali, senza cioè impiego di LSD. Questa terapia, molto più lunga della psichedelica propriamente detta, sembrava in grado di offrire un’ottima e più ampia conoscenza dei processi psichici e dei meccanismi inconsci.
2- LA TERAPIA PSICHEDELICA nell’accezione più stretta, indica quella particolare tecnica elaborata inizialmente da Hoffer e Osmond, due psichiatri canadesi. Consisteva in un’unica somministrazione (o in pochissime somministrazioni) di una forte dose di LSD (da 300 a 600 mcg. e oltre), affiancata ad una psicoterapia intensiva. Lo scopo era di ottenere un’esperienza estremamente radicale e destrutturante, in grado di determinare un cambiamento globale della personalità del paziente. In genere questa terapia si dimostrò essere molto più efficace nel trattamento dell’alcolismo, delle tossicodipendenze e in alcuni disturbi comportamentali. Spesso i cambiamenti terapeutici ottenuti con una sola seduta psichedelica erano più profondi di quelli osservati in una sola seduta psicolitica. Una difficoltà riconosciuta da Grof stava nel fatto che non tutti i pazienti potevano avere l’esperienza “trasformatrice”, con una percentuale che oscillava fra il 25 e il 70%: più alta nei tossicodipendenti, negli alcolisti e nei malati terminali, più bassa nelle personalità nevrotiche.
3- LA TERAPIA IPNODELICA fu sviluppata da Levine e Ludwig, e consisteva nel combinare l’azione dell’LSD con quella della suggestione ipnotica. Con questa tecnica l’ipnosi serviva per guidare il paziente attraverso l’esperienza lisergica, il suo contenuto e il suo corso. La relazione fra esperienza psichedelica ed ipnosi è estremamente interessante. Fogel e Hoffer (1962) riportarono che era possibile contrastare gli effetti dell’LSD con la suggestione ipnotica, e inversamente produrre i tipici fenomeni psichedelici in soggetti che non avevano assunto alcuna sostanza. Charles Tart condusse un interessante esperimento di “ipnosi mutuale” nel quale due persone addestrate sia come ipnotisti che come soggetti ipnotici, si ipnotizzavano reciprocamente in una trance sempre più profonda; da un certo punto in poi divennero non più recettivi alle suggestioni di Tart, inoltrandosi in un “viaggio interiore” molto simile all’esperienza psichedelica (Tart, 1967).
Nel trattamento ipnodelico il primo intervento si focalizzava sulla esplorazione del paziente e dei suoi sintomi clinici, sulla sua storia passata e presente; in seguito veniva addestrato come soggetto ipnotico e spinto poi in una trance ipnotica. Una decina di giorni dopo questa prima fase, al soggetto veniva somministrata una dose medio-bassa di LSD (intorno ai 100 microgrammi); durante la fase di latenza, prima cioè che la sostanza producesse i suoi effetti, il paziente veniva sottoposto ad induzione ipnotica in modo che quando gli effetti dell’LSD incominciavano a manifestarsi, egli già si trovava in una trance indotta.
Per la somiglianza fra l’esperienza lisergica e lo stato ipnotico, il passaggio fra i due livelli avveniva in maniera assai dolce, permettendo al paziente di lavorare su importanti aree problematiche superando con maggiore facilità difese e resistenze. La terapia inodelica fu sperimentata su alcolisti e tossicodipendenti, dimostrandosi più efficace delle due tecniche (ipnosi e terapia psichedelica) usate separatamente (Ludwig, 1970).
L’utilizzo dell’LSD in psichiatria e psicologia clinica ha sempre rappresentato l’area più controversa della ricerca e della sperimentazione, e con la messa al bando della sostanza si è messo una pietra sopra al dibattito sul suo possibile impiego nel trattamento dei disturbi mentali e psichici. D’altra parte la letteratura specialistica si è sempre divisa in due gruppi antitetici: da un lato i testi dai toni enfatici che riportavano risultati ottenuti in tempi ristretti e al limite del credibile, dall’altro studi che riportavano soltanto dati negativi, quasi a voler smentire i risultati del primo gruppo. Certamente la valutazione dl potenziale terapeutico dell’LSD (e di altre sostanze psichedeliche) presenta problemi non indifferenti, ma ciò non toglie che il “folklore”, gli scandali, la sua definizione come prototipo di droga, hanno trovato spazio sui mezzi di comunicazione di massa maggiore di quanto non abbiano avuto le informazioni sul suo serie impiego clinico.
Vediamo di riassumere le principali applicazioni sperimentali dell’LSD nella terapia dei disturbi mentali e psichici.
1- Nevrosi e disturbi psicosomatici. Come qualsiasi altra forma di psicoterapia, anche la psichedelica si è dimostrata molto efficace in tutti i disturbi di natura nevrotica. I soggetti globalmente più adatti a questo tipo di terapia si dimostrarono essere quelli con un discreto quoziente di intelligenza e una parziale compromissione nella sfera sociale e interpersonale, ovvero tutti i casi di personalità con struttura nevrotica. La maggior parte dei disturbi nevrotici sembrava infatti rispondere bene alla terapia psichedelica, anche se non ci si possono aspettare né miracoli né “guarigioni” immediate. La maggior parte dei ricercatori sembra concordare sul fatto che la prognosi era più favorevole nei casi con una componente ansiosa o depressiva: i pazienti con ansia fluttuante (nevrosi d’ansia) o con vere e proprie formazioni fobiche rispondevano bene al trattamento, così come i soggetti con conversioni isteriche. Tuttavia, l’enfasi data ai risultati non è obiettivamente giustificata a pieno: le nevrosi sono i disturbi che reagiscono discretamente bene anche alla psicoanalisi e alla maggior parte delle tecniche psicoterapeutiche tradizionali. Le nevrosi derivanti da traumi oggettivi (gravi incidenti stradali, catastrofi naturali, ecc.) si dimostrarono particolarmente suscettibili fin dalle prime sperimentazioni alla terapia con l’LSD, così come a tutte le terapie abreative (narcoanalisi, ipnoterapia, ecc.). Spesso una sola robusta dose di LSD è stata in grado di alleviare o rimuovere i sintomi debilitanti di una nevrosi traumatica. Anche i disturbi sessuali di natura psicogena, quali la frigidità femminile, l’impotenza maschile, il vaginismo, l’eiaculazione precoce, sembravano rispondere positivamente all’LSD, anche se, ovviamente, è pura illusione credere che una sola seduta psichedelica possa risolvere conflitti così profondi. Gli studi sperimentali degli anni ‘50 e ‘60 evidenziarono anche un possibile utilizzo dell’LSD in tutti quei disturbi fisici di natura psicogena (disturbi psicosomatici), sia quelli più propriamente nevrotici (conversioni isteriche) che quelli più arcaici (conversioni pregenitali). Disturbi gastrointestinali, muscolari, artrosi psicogene (senza cioè una base organica) potevano essere ricondotti alle loro matrici psichiche e quindi trattate psicoterapeuticamente.
2- Stati psicotici, Borderline e Psicosi organiche. I pazienti sofferenti di psicosi o di sindromi borderline risposero, in determinate e particolari circostanze, positivamente all’LSD. Anche se le esperienze cliniche nel trattamento della schizofrenia e delle altre psicosi con la sostanza furono tuttavia abbastanza limitate, è comunque possibile trarre alcune considerazioni. Come sottolineava Grof, la terapia psichedelica su pazienti schizofrenici è particolarmente impegnativa, e necessita di terapeuti con una speciale preparazione (Grof, 1980:257). Gli schizofrenici cui venne somministrato LSD mostrarono un aumento dei fenomeni patologici e una regressione ai primi stadi di sviluppo, più direttamente collegati alla storia della loro malattia. Partendo da queste semplici osservazioni, è stato anche ipotizzato che la somministrazione di LSD ai famigliari dei pazienti schizofrenici avrebbe potuto rivelare sintomi specifici durante l’esperienza (Anastasopoulos & Photiades, 1962). La sperimentazione del passato sconsigliava l’impiego di LSD su pazienti paranoici, mentre veniva considerato trattabile il cosiddetto ciclo maniaco-depressivo, anche se i pazienti bifasici possono creare problemi non indifferenti.
3- Alcolismo, tossicodipendenze, disturbi caratteriali e perversioni sessuali. Il campo in cui storicamente si sono ottenuti risultati migliori con la terapia psichedelica è certamente quello dell’alcolismo e delle tossicodipendenze. Secondo Hoffer e Osmond che si occuparono della terapia dell’alcolismo, l’efficacia della tecnica potrebbe essere parzialmente spiegata col fatto che quando un alcolista “tocca il fondo” ed è in preda al delirium tremens è contemporaneamente più disposto a venirne fuori (Wells, 1977:64). È comunque un dato di fatto che dei circa mille alcolisti trattati presso l’Ospedale di Saskatchewan (Canada) circa il 50% guarì completamente, o per lo meno ridusse drasticamente il consumo di bevande alcoliche. In una ricerca condotta al Maryland Psychiatric Research Centre, 135 pazienti alcolizzati furono divisi in due gruppi, uno venne trattato con dosi robuste di LSD (450 microgrammi) e uno con dosi basse (50 microgrammi). Dopo sei mesi un’equipe di controllo stabilì che nel gruppo trattato con dosi massicce il 53 % dei pazienti poteva considerarsi “essenzialmente ristabilito”, mentre l’altro gruppo presentava una “guarigione” solo nel 33% dei soggetti. La differenza non era altrettanto marcata dopo un controllo a 18 mesi, quando le percentuali si rivelarono rispettivamente del 54% e del 47% (Pahnke et al. 1970). Tra la mole immensa della documentazione sulla terapia dell’alcolismo con LSD, vale la pena di citare Godfrey, uno dei pochi Autori tradotti in italiano (Godfrey, 1974). Lo studio in questione venne condotto nel Topoka Veterans Administration Hospital, nel biennio 1963-64 e coinvolse 123 esperimenti. Nel corso di un programma terapeutico di 90 giorni, furono somministrate dosi di LSD comprese fra i 300 e i 900 microgrammi che misero in evidenza cambiamenti nei pazienti «nell’aspetto esteriore, negli atti e nella forma dei rapporti umani» (Godfrey, 1974:62).
Più recentemente, a partire dal 1985, nella ex Unione Sovietica si conducono sperimentazioni con la Ketamina. La sostanza possiede alcuni vantaggi rispetto agli altri psichedelici: è innocua e a breve azione (gli effetti psichedelici durano circa un’ora). Inoltre, la ketamina non rientra nella lista degli psichedelici controllati dalla legge.
Altrettanto recentemente si è potuta testare la validità del GHB nella cura di alcuni disturbi del sonno, come la narcolessia e l’apnea da sonno, nonché l’efficacia dimostrata da tale molecola nella riduzione della compulsione al consumo in varie forme di tossicodipendenza. Quest’ultima proprietà del GHB è in particolare interessante. Da un lato essa è in qualche modo speculare al potenziale d’abuso che la sostanza possiede, anche in considerazione del fatto che esso mima in larga parte gli effetti centrali dell’alcol, senza però averne la grave tossicità. Dall’altro fa del GHB una molecola d’elezione per il trattamento della dipendenza, alcolismo in testa. Negli anni ‘80 Gian Luigi Gessa – direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Cagliari e primo ricercatore al mondo ad avere indagato questo tipo di proprietà farmacologiche e potenzialità terapeutiche – ha dimostrato l’efficacia di questa molecola nella riduzione del consumo volontario di alcol etilico negli animali e nell’uomo. Nel 1991 questi risultati portavano il Servizio Sanitario Nazionale ad avviare il trattamento degli alcolisti con GHB. L’Italia è lo Stato pioniere di questa cura, il primo al mondo per numero di trattamenti. In dieci anni d’uso clinico il GHB è stato somministrato con risultati positivi in più di mezzo milione di preparati a circa 20.000 pazienti, senza manifestare gravi reazioni avverse, casi d’abuso o di intossicazione fatale. «In Italia – sottolinea Gessa – la distribuzione legale per uso medico sembra aver ridotto i fenomeni d’abuso nella popolazione, a riprova del fatto che “ciò che non è proibito non seduce”».
Gilberto Camilla
Psicoanalista, Presidente della Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza (SISSC) Direttore Scientifico della Rivista Altrove