Il punto critico

Alla ricerca della felicità

obey-giant-22-obama-hope‘Speranza’ è una parola ambigua. Nell’Occidente cattolico è gravata di un significato per dir così quietistico, rinunciatario, e infine irresponsabile. La ‘speranza’ cattolica è un affidarsi alle cose così come sono senza rendersene conto; è una rinuncia alla conoscenza e all’interpretazione; è un’attesa più o meno passiva di un tempo e di una situazione migliori. ‘Non ci resta che sperare’ è un’affermazione che implica l’attesa di un intervento esterno (divino?), senza il quale ‘ogni speranza è perduta’. Nella Roma classica la speranza era chiamata ‘ultima dea’, perché dopo di lei non vi era più nessuno da invocare.

Hope – lo slogan con cui Barack Obama ha vinto le elezioni presidenziali americane – non è la speranza cattolica, e neppure la speranza degli Antichi. Hope non ha a che fare con la rinuncia, con l’accettazione o con l’attesa miracolistica di qualche cosa che ci viene incontro e ci salva. Hope è invece lo spazio dell’individuo attivo, libero e padrone di sé: e per questo ha molto a che fare con la felicità.

Quando decisero di nascere come nazione indipendente, gli Americani ritennero opportuno spiegarne al mondo le ragioni, mettendo per iscritto i principi cui intendevano ispirarsi e le ragioni per cui si andavano separando dalla Gran Bretagna. Nacque così, nel 1776, la Dichiarazione d’indipendenza. Conviene rileggerne l’inizio: “Consideriamo di per sé evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi ci sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Mai prima di allora qualcuno si era spinto tanto avanti, scrivendo in una costituzione ciò che di norma apparteneva al lessico degli utopisti o dei predicatori. Che l’America dei due secoli successivi abbia spesso tradito la sua Dichiarazione, non significa che quel testo sia oggi meno valido, per gli Stati Uniti e per il mondo.

L’atto originario del paese di Obama è una rivendicazione ‘senza se e senza ma’ di tre diritti fondamentali: la vita (e dunque anche, diremmo oggi, il diritto a decidere quando e come concluderla), la libertà e infine la ricerca della felicità, cioè la possibilità di esercitare concretamente la propria libertà per conquistare uno stile di vita, uno status sociale, una professione o qualsiasi altra cosa che ci piaccia e ci renda felici.

La Dichiarazione non parla di ‘diritto alla felicità’, ma di diritto ‘alla ricerca della felicità’. La distinzione è essenziale. Nessuno di noi sa che cosa sia esattamente la felicità, e ciascuno cambia spesso idea nel corso della sua stessa vita; potrebbe anche non esistere, e molto probabilmente per qualcuno non esiste. E tuttavia abbiamo il diritto di cercarla, in piena libertà, fino all’ultimo respiro. È questo lo spazio della speranza americana, è questo il senso profondo di Hope.

 



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