Airbnb & Co: il lato mica tanto oscuro del turismo low cost
Il turismo di massa così come lo abbiamo conosciuto finora non è stato deleterio solo per l’ambiente, inteso come natura, ma per le città stesse, stravolte ad uso e consumo del turista. Venezia, Firenze e Roma sono casi eclatanti in questo senso. Un grosso ruolo nella turistificazione delle città, l’ha avuto Airbnb. Dal 2008 la sua piattaforma è mediatrice di offerte di affitto temporaneo tra privati, alloggi per ogni gusto e tasca in luoghi del mondo dove gli alberghi – talvolta – nemmeno arrivano. Allettando le persone con la promessa di esperienze autentiche, in alternativa alla tradizionale sistemazione in albergo, ha agito da volano affinché il contesto diventasse sempre più artefatto. Però sarebbe ingiusto accusare questa piattaforma di tutti i difetti del turismo di massa; sono molteplici infatti gli attori che prosperano grazie a un modello di consumo, quello low cost, di cui oggi contiamo i danni. La giornalista Sarah Gainsforth ha studiato a fondo il fenomeno tanto da scriverci un libro “Airbnb, città merce”, seguito di recente da un breve saggio “Oltre il turismo”. Ecco perché l’abbiamo intervistata.
Come è possibile, se è possibile, ripristinare un equilibrio?
È giusto chiedersi, infatti, se questo sia possibile. Alcuni processi sono semplicemente irreversibili; il cambiamento climatico, per esempio, ma anche lo spopolamento dei centri storici. Se non partiamo da questo assunto non comprendiamo l’assoluta urgenza di introdurre misure affinché il turismo diventi davvero sostenibile. È chiaro che lo spopolamento dei centri storici non è di per sé un fenomeno irreversibile, ma diventa sempre più difficile contrastare e, se mai lo si volesse fare, invertire questa tendenza. La prima cosa da fare è limitare e controllare i posti letto turistici, che non possono superare (come in alcune zone delle città citate) il numero di residenti. Di più, abbiamo scoperto che in assenza di norme e controlli gli Airbnb hanno causato l’aumento del sommerso, con un numero impressionante di presenze turistiche non rilevate, che sfuggono alla tassa di soggiorno e che generano però costi per la collettività. Con questo sistema a guadagnarci sono soltanto gli host, non la città. Di più, l’aumento incontrollato di case vacanza crea tutta una serie di problemi in altri settori (la trasformazione del commercio, il disagio abitativo, la minore mobilità studentesca) che pesano su tutti, e che sono un boomerang. Quindi un’operazione semplice, come quella di istituire un numero chiuso di permessi per gli affitti brevi, e istituire un ufficio con le risorse necessarie per fare i controlli, potrebbe avere effetti in termini di sostenibilità ambientale e sociale, ma anche economici, molto positivi.
Lungo quali direttive Airbnb ha fatto sì che ci ritrovassimo con centri storici inabitabili?
Nella prima fase di espansione di Airbnb in Italia, intorno al 2015, la retorica della condivisione, del home-sharing come risorsa per giovani a basso reddito, era vincente anche, spesso, tra persone con un alto livello di consapevolezza politica. C’era molta ambiguità. Per questo c’è stato un grande ritardo, rispetto ad altri paesi, nella formazione di un’opinione pubblica critica del modello Airbnb. La pratica degli affitti brevi è stata vista come cosa positiva sia dai proprietari che dalla politica, come ripiego contro gli effetti della crisi economica del 2008, e come modo di usare e mettere a reddito le tantissime case vuote in Italia. E addirittura come strumento per ripopolare territori in via di abbandono. Abbiamo quindi dovuto aspettare che gli affitti brevi producessero danni enormi nelle città, perché la stampa mainstream e l’opinione pubblica ascoltasse le voci critiche del modello Airbnb, per esempio quelle degli attivisti della rete Set – Sud Europa di fronte alla Turistizzazione – e degli studenti. Nei centri di Roma, Napoli, Firenze, Venezia, ma anche Milano, Bologna, nelle città più piccoline come Verona, sembrava che tutte le case stessero finendo su Airbnb. Semplicemente, si guadagna molto di più che affittando a inquilini stabili. In un’economia stagnante tutto gira intorno alla rendita, è il grande salvagente (solo per alcuni certo, per chi ha ereditato o potuto comprare una casa in centro), una strategia adattiva, in qualche modo “l’ultima spiaggia” di un’economia che non offre altro. Il tema degli affitti brevi – e quindi della necessità di limitare i diritti della proprietà privata – è stato affrontato soltanto con la trasformazione dei quartieri in luna-park per turisti, quindi per i problemi di vivibilità e di decoro urbano che Airbnb ha creato, più che per un principio di sostenibilità sociale e ambientale. In questo senso la strada da fare è ancora lunga: se a livello di misure, bisogna limitare gli Airbnb, a un livello culturale, bisogna rompere questa egemonia della rendita e cominciare a parlare di che cosa le città possono vivere, oltre che di rendita e di turismo. Questo è il nodo. Perché se cuore dell’economia resta il mattone (e a leggere il PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilineza – così sembrerebbe) il problema è come, con quale domanda, si autoalimenta. Ancora più turisti, abitanti temporanei, creativi e nomadi digitali benestanti?
Le compagnie low cost hanno permesso alle persone di viaggiare di più, ma un po’ come Airbnb, laddove sono arrivate si sono dimostrate un flagello pari alle cavallette. Come se ne esce?
Il problema è il modello di consumo low-cost che, in tutti i settori (dalla grande distribuzione alimentare, della moda, ad Amazon, a Airbnb, ai voli appunto) nasconde e scarica i costi altrove, cioè il consumatore non li paga direttamente, ma indirettamente sì. Li paga in termini ambientali, sociali, perché questi modelli di business non sarebbero sostenibili se non ci fosse da qualche parte l’ombra, la parte nascosta, buia e non immediatamente evidente, di questo modello: una forza lavoro sfruttata nei campi e nelle fabbriche, una schiera di piccoli commercianti che per vendere su Amazon paga commissioni sempre più alte, quartieri luna-park grazie ad Airbnb, destinazioni turistiche sfruttate fino all’esaurimento. Se apparentemente il modello low-cost ha democratizzato i consumi, i viaggi, le pratiche, bisogna essere consapevoli che c’è una parte di costi scaricati altrove. Il modo migliore per una “destinazione” di non morire è di abbracciare un modello di sviluppo locale che non sia imperniato solo sul turismo; molti operatori turistici già adesso puntano su un’offerta che sia legata e che beneficia davvero i territori; i consumatori possono contribuire a premiare questi modelli piuttosto che altri. Ma in generale bisogna accettare che, al contrario di quanto ci viene inculcato dal marketing, no, non abbiamo diritto a tutto, a viaggiare ovunque, come e quando ci pare. Prima dell’avvento del low-cost la questione non si poneva; adesso vige l’idea che viaggiare sia un “diritto” (per una parte di popolazione occidentale benestante, di certo non per chi scappa da guerre e povertà); dobbiamo cambiare mentalità, ma questo, ripeto, non si fa limitando gli spostamenti delle persone, si fa limitando i posti letto e la capacità di accoglienza di una destinazione a rischio: se non c’è posto, non ci si va.
Tra le grandi opere del PNRR ci sono diverse tratte di alta velocità al Sud. Insieme alla rete Internet, sono le infrastrutture designate per portare sviluppo e turismo anche lì. Come finirà?
Costruire infrastrutture al Sud è fondamentale (per quanto non so se l’alta velocità sia la migliore soluzione); il problema è per chi sono pensate e finanziate le infrastrutture. Mi chiedo se ci sia un’idea, una visione, di gestione del turismo, se si vuole attrarre. Altrimenti finirà come con le concessioni balneari, in mano a pochi privati che fanno enormi profitti senza benefici per i territori.
Un altro turismo è possibile?
Sì, penso che lo sia, se prevalgono politiche di lungo periodo che rinunciano ai profitti immediati per garantire la sopravvivenza di ecosistemi delicati, in cui i turisti siano i benvenuti, compatibilmente con le esigenze degli abitanti, e del pianeta.